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Leggende di Roma: l’Oro di Tolosa

Creato il 19 febbraio 2014 da Amnell @amnell9891

Centosettant’anni prima [della battaglia di Arausio, 105 a.C.], i Volci Tettosagi si erano uniti a una migrazione dei Galli capeggiati dal secondo dei due famosi re celtici a nome Brenno. Questo secondo Brenno aveva invaso la Macedonia, dilagando in Tessaglia, travolto i difensori greci al passo delle Termopili, ed era penetrato nella Grecia centrale e in Epiro. Aveva saccheggiato e razziato i tre più ricchi templi del mondo: quelli di Dodona in Epiro, di Zeus a Olimpia e il grande santuario di Apollo e della sua pitonessa a Delfi.
Poi i Greci si erano ripresi, i Galli ritirati verso nord con tutto il bottino, Brenno era morto in seguito a una ferita e il suo piano era fallito. In Macedonia, le sue tribù rimaste senza un capo decisero di attraversare l’Ellesponto e insediarsi in Asia Minore, dove fondarono l’avamposto gallico denominato Galazia. Ma una metà, forse, dei Volci Tettosagi preferì far ritorno a Tolosa anziché attraversare l’Ellesponto; durante un consiglio generale tutte le tribù convennero che a questi Volci Tettosagi con la nostalgia di casa si dovessero affidare i tesori di una cinquantina di templi saccheggiati, ivi compresi i tesori di Dodona, Olimpia e Delfi. Si trattava solo di questo: un affidamento. I Volci Tettosagi che tornavano in patria avrebbero conservato il bottino dell’intera migrazione a Tolosa, in attesa del giorno in cui tutte le tribù fossero rientrate in Gallia a reclamare la propria parte.
Per facilitare il viaggio di rientro, fusero tutto quanto: grandi statue d’oro massiccio, urne d’argento alte un metro e mezzo, coppe e vassoi e boccali, tripodi d’oro, corone d’oro o d’argento, tutto quanto finì nei crogioli, un po’ alla volta, e alla fine mille carri stracolmi procedettero verso occidente lungo le placide valli alpine del Danubio e dopo alcuni anni discesero la Garonna e giunsero a Tolosa.

Cosa facevano i Galli, prima che arrivasse Cesare a farli ballare?

Risposta esatta: scorrazzavano per l’Europa, in particolare per la Grecia, che invasero e da cui furono cacciati più e più volte dopo la morte di Alessandro Magno. Nell’occasione di cui sopra fecero più danni del solito.

La Grande Spedizione

Nel 280 a.C., l’anno in cui Pirro annienta i Romani a Eraclea, dalla Pannonia partono tre gruppi di Galli diretti rispettivamente in Tracia, in Macedonia e in Grecia.
I primi due quasi non incontrano resistenza, giustiziano il re di Macedonia in un baleno e, non trovandoci gusto, si ritirano a nord infischiandosi altamente delle conquiste.
Il terzo contingente, invece, dopo una pesante defezione arriva fino in Tessaglia, passa le Termopili con poco sforzo e assedia il tempio di Apollo a Delfi. Solo un’epidemia e i rigori dell’inverno determinano il successo dei difensori.

Con gravi perdite e il comandante della spedizione, Brenno, moribondo (e poi suicida), l’armata inizia il ripiego e si frammenta. Una parte si unisce agli Scordisci in Illiria, il resto si aggrega al gruppo che aveva fatto defezione.
Dopodiché questi ultimi, un misto di Trocmi, Tolistobrogi e Tettosagi, fanno da mercenari per la Bitinia, combattono in Asia Minore e pensano di restarci. Ovviamente finiscono per fare i predoni nelle ricche poleis costiere e continuano a fornire soldati al miglior offerente.
Questa sì che è vita! Senonché dopo un po’ l’esercito cui si sono uniti — per la cronaca, quello di un Mitridate del Ponto — viene sconfitto e loro finiscono in una zona abbastanza schifosa dell’Anatolia. Lì fondano il regno di Galazia, ché i Greci hanno preso a chiamarli Galati anziché Celti, e si danno una capitale: Ancyra, odierna capitale della Turchia.

Così si crea una sorta di exclave della Gallia, che non si lascerà ellenizzare fino al IV secolo (scomparsa del dialetto galato secondo san Girolamo).

excited

La leggenda

Avrete notato che la realtà storica è diversa da quel che dice la citazione in incipit di articolo. I Galli non saccheggiarono mai Delfi, anche se ci andarono molto vicino.
Ciò dipende dalla manipolazione che i Romani fecero dell’evento per giustificarne un altro: la disfatta di Arausio.

Fu una cosa grossa: diciannove legioni romane contro duecentomila tra Cimbri, Teutoni, Ambroni e Tigurini, gli stessi che poi sbatteranno il muso contro Mario. Eppure non ne abbiamo quasi notizia.
Sappiamo che nel 105 a.C. è successo qualcosa solo da citazioni di fonti indirette in opere frammentarie o, alla meno peggio, da riassunti per gli scolari di libri di storia scritti un secolo dopo l’accaduto.
È il caso delle Periochae della Storia di Roma dalla sua fondazione di Livio, che non dicono più di questo:

Perioca 67 (anni 105-103)

1 – Marco Aurelio Scauro, legato del console, fu catturato dai Cimbri dopo la disfatta dell’esercito e poiché, convocato nel loro consiglio, cercava di scoraggiarli dal valicare le Alpi per attaccare l’Italia, per il fatto che diceva che i Romani erano invincibili, fu assassinato da Boiorix, un giovane di indole fiera. 2 – Sconfitti in battaglia dai medesimi nemici, il console Gneo Manlio e il proconsole Quinto Servilio Cepione furono anche spogliati ognuno del suo accampamento; furono uccisi presso Arausio, secondo Anziate, ottantamila soldati e quarantamila attendenti e vivandieri. 3 – Cepione, alla cui temerità era dovuta la sconfitta subita, fu condannato, i suoi beni furono confiscati per la prima volta dopo il regno di Tarquinio e gli fu revocato il comando militare.

In cui figurano Boiorix, futuro capo dei Teutoni giusto in tempo per essere battuto da Mario, e Cepione, idiota del terzo tipo.
Così idiota da avere credibilità pari a zero nel momento in cui a Roma qualcuno iniziò a parlare dell’Oro di Tolosa, di come Cepione avesse approfittato del suo incarico sul posto per trovarlo, requisirlo, simularne il furto da parte dei briganti e tenerlo per sé senza passare uno spicciolo a Roma.

Finì che il nostro si beccò un’accusa di malversazione, la requisizione dei beni e la pena capitale, probabilmente revocata in favore di un più convenzionale esilio a Smirne.
Strabone aggiunge che le figlie dovettero darsi all’arte più antica del mondo (come mi hanno suggerito di dire a scuola in luogo di un termine più preciso) e morirono in disgrazia.
Mica tanto, visto che invece il figlio di Cepione passò al suo erede una fortuna che non poteva aver accumulato da solo…

Giusto per mettere al suo posto un tassello, tale erede, il figlio della figlia del Cepione di Tolosa è Bruto, cesaricida. Quindi probabilmente quell’immensa fortuna finì comunque nelle casse dell’erario. Happy ending.

Appendice I

Il 280 è un anno bellissimo, perché porta in rilievo quella sensazione di complessità che è raro trarre dalle poche fonti dell’Evo Antico. Sembra sempre che gli eventi accadano in posti diversi in momenti diversi, in una linea noiosissima in cui succede qualcosa d’importante una volta ogni cent’anni. Qui è diverso. Mentre in Italia le legioni si facevano battere vergognosamente da Pirro re d’Epiro, la Grecia e l’Epiro stesso facevano fronte a un’invasione di decine di migliaia di barbari, riuscendo in qualche modo a liberarsene.

La cosa è particolare anche in un’ottica di concetto.
I Greci erano il popolo disunito per antonomasia, a maggior ragione dopo il crollo dell’impero macedone, ma isolatamente, ognuno con piccole armate, riuscì a risputare indietro un’orda più o meno compatta, nonostante le varie etnie che comprendeva.
D’altro canto, una potenza nascente dai tratti già monolitici come Roma, tenuta insieme da organi politici ben radicati nella tradizione e un patriottismo senza precedenti, perse contro un re un po’ cialtrone per un misero litigio tra consoli.

Morale della favola: l’unione non fa la forza, perché l’unione non esiste. :D

Appendice II

La Perioca che ho citato parla di un Aurelio Scauro catturato dopo la disfatta dell’esercito, ma prima della battaglia di Arausio. Non è un’incongruenza: in realtà quella fase della guerra fu persa perché, proprio come a Eraclea nel 280, il console patrizio — Cepione l’idiota — e il console plebeo — Manlio Massimo — non erano d’accordo sulla strategia da impiegare. Divisero l’esercito e furono sconfitti separatamente.
La vicenda del legato Scauro è avvolta nel mistero. Ecco come la McCullough ci ricama sopra:

[...] Marco Aurelio Scauro fu fatto prigioniero prima che potesse gettarsi sulla sua spada.
Tradotto al cospetto di Boiorix, di Teutobod e del resto dei cinquanta capi¹ che erano venuti a parlamentare, Aurelio si comportò in modo splendido. Il suo portamento era fiero, i suoi modi intollerabilmente altezzosi; non ci fu oltraggio o sofferenza che potessero infliggergli capace di fargli chinare il capo o strappargli un lamento. Lo rinchiusero in una gabbia di vimini appena grande abbastanza da contenerlo, e  lo costrinsero a guardare mentre erigevano una pira con legname stagionato, vi appiccavano il fuoco e la lascisvano ardere. Aurelio guardò, a gambe salde, neanche un tremito alle mani, nessuna traccia di paura sul viso, senza neppure aggrapparsi alle sbarre della sua angusta prigione. Poiché non rientrava nei loro piani che un romano morisse asfissiato dal fumo o di morte troppo rapida tra grandi lingue di fiamma, attesero che la pira si fosse ridotta a un cumulo di braci ardenti, poi issarono la gabbia di vimini proprio al centro del rogo e lo arrostirono vivo.
Ma vinse lui, anche se la sua fu una vittoria solitaria. Non permise a se stesso, infatti, di contorcersi in preda alle atroci sofferenze, né di urlare o lasciare che le sue gambe si piegassero. Morì da vero nobile romano, risoluto a dimostrar loro con la sua condotta il reale valore di Roma, a renderli edotti di un luogo che sapeva produrre uomini come lui, romano di Roma.

***

¹La traduzione italiana dice thane, ma è un anacronismo: nella definizione dell’Encyclopædia Britannica i thane erano dei feudatari dell’Alto Medioevo, e in ogni caso tale lemma è attestato in un solo scritto antecedente il decimo secolo d.C.


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