Leggere e i suoi pericoli: diventare scrittori

Creato il 27 novembre 2011 da Tiba84
Sulla Domenica del Sole24Ore, in prima pagina, questo bellissimo articolo di A. Berardinelli tratto da un intervento tenuto al convegno «Dal progetto di lettura di Carlo Bo alla lettura nell'era digitale» (qui tutto; qui dei link di lettura), Tutti i pericoli della lettura:
L'atto della lettura è a rischio. Leggere, voler leggere e saper leggere, sono sempre meno comportamenti garantiti. Leggere libri non è naturale e necessario come camminare, respirare, mangiare, parlare o esercitare i cinque sensi. Non è un'attività primaria, né fisiologicamente né socialmente. Viene dopo. È una forma di arricchimento, implica una razionale e volontaria cura di sé. Leggere letteratura, filosofia e scienza, se non lo si fa per professione, è un lusso, una passione virtuosa o leggermente perversa; un vizio che la società non censura; è sia un piacere che un proposito di automiglioramento. Richiede un certo grado e capacità di introversione concentrata. È un modo per uscire da sé e dall'ambiente circostante, ma anche un modo per frequentare più consapevolmente se stessi e il proprio ordine e disordine mentale.
La lettura è tutto questo e chissà quante altre cose. È però soltanto uno dei modi in cui ci astraiamo, ci concentriamo, riflettiamo su quello che ci succede, acquisiamo conoscenze, ci procuriamo sollievo e distacco. Eppure la lettura è un singolo atto che ha goduto di un grande prestigio, di un'aura speciale nel corso dei secoli e ormai da circa tre millenni, da quando la scrittura esiste. A lungo e ripetutamente, per ragioni diverse, che potevano economiche, religiose, intellettuali e politiche, estetiche e morali, la lettura di certi testi ha avuto qualcosa del rituale. I testi di riuso, come i libri sacri, le raccolte di leggi e le opere letterarie, per essere riusati sono stati conservati e tramandati scrupolosamente. La società occidentale moderna ha trasformato e reinventato, in una certa misura, le ragioni e le modalità del leggere. Ma recentemente, negli ultimi decenni, l'atto di leggere, il suo valore riconosciuto, la sua qualità, le sue stesse condizioni ambientali e tecniche sembrano minacciate. Ne parla Italo Calvino in tono semiserio ma sinceramente allarmato nell'incipit dell'ultimo dei suoi romanzi: " Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: 'No, non voglio vedere la televisione!' Alza la voce, se non ti sentono: 'Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!' forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida…".
Si tratta dei rischi che corre la lettura. Ci sono d'altra parte i rischi che corre chi legge, soprattutto chi legge letteratura, filosofia e storia, in particolare quelle scritte in Europa e in America negli ultimi due secoli. Da quando esiste qualcosa che chiamiamo modernità – cioè la cultura dell'indipendenza individuale, del pensiero critico, della libertà di coscienza, dell'uguaglianza e della giustizia sociali, dell'organizzazione e della produttività, nonché del loro rifiuto politico e utopico – da allora leggere fa correre dei rischi. È un atto socialmente, culturalmente ambiguo: permette e incrementa la socializzazione degli individui, ma d'altra parte mette a rischio la stessa volontà individuale di entrare nella rete dei vincoli sociali rinunciando a una quota della propria autonomia e singolarità. [...]
Ma è rischiosa anche la lettura dei classici premoderni, quelli che precedono, per intenderci, Shakespeare, Cervantes, Montaigne, che hanno reinventato generi letterari fondamentali come la prosa di pensiero, l'epica, il teatro. I problemi e i valori che caratterizzano la modernità occidentale, cioè libertà, creatività, rivolta e angoscia, si manifestano con chiarezza soprattutto con l'inizio del Seicento e cresceranno fino a travolgere distruttivamente la tradizione precedente, greco-latina e medievale. Un lettore attento e libero commentatore di classici antichi come Montaigne si dichiara provocatoriamente, con una sincerità forse enfatizzata, uomo senza memoria. Cervantes celebra e mostra impossibile l'eroismo antico, ormai nemico della realtà, del senso comune e follemente libresco. Shakespeare azzera e rimescola comico e tragico, alto e basso, re e buffoni, principi e becchini, eroismo e stanchezza malinconica.
[...] i libri sono contagiosi e per subire il contagio bisogna leggerli con passione e, diciamo pure, con una ricettiva ingenuità. Senza essere Don Chisciotte o Emma Bovary, traviati dall'eroismo cavalleresco e dall'amore romantico, ogni lettore appassionato (non solo di romanzi) fa entrare le sue letture predilette nella costruzione della propria identità. La lettura permette di stabilire delle vie di comunicazione fra l'io profondo, con il suo caos, e l'io sociale, che deve fronteggiare le regole del mondo. Tra le letture più rischiose ci sono quelle il cui contagio suggerisce, impone di cambiare vita, di fuggire dal mondo o di trasformare radicalmente la società. Chi è stato, chi è cristiano o marxista sa bene di che parlo: il Nuovo Testamento e le opere di Marx e Engels non perdonano chi resta quello che era dopo averle lette. Non sono solo libri, sono tribunali che giudicano ognuno e tutti stabilendo leggi e mete metafisiche, storiche, morali, utopiche. [...]
Nel Novecento ci sono stati un canone Croce e un canone Contini, un canone Lukács, un canone Eliot, un canone Breton. Sono almeno parzialmente canonici e canonizzanti tutti i critici più autorevoli, ognuno con il suo criterio di scelta: Leo Spitzer (deviazione dalla norma linguistica), Erich Auerbach (divisione o mescolanza degli stili nella rappresentazione della realtà), Viktor Šklovskij (modi dello straniamento), Michail Bachtin (polifonia e dialogismo), Walter Benjamin (allegoria e utopia) ecc.
Diventare scrittori o critici dopo aver letto uno o più autori vuol dire, nel primo caso imitare, sfidare, riprendere, cercare di superare un modello o decidere di abbattere un idolo; nel secondo caso, trasformarsi da lettore in superlettore, lettore al quadrato, lettore che scrive su ciò che ha letto, che intensifica l'atto di leggere elaborando metodi per leggere meglio e per ricavare il massimo profitto scientifico, morale, ideologico dalla lettura. In altri termini, si tratta di modalità di lettura che nell'ultimo mezzo secolo si sono alternate entrando in conflitto e in polemica.
[...] Nel Novecento l'idea di ermeneutica, da Dilthey e Heidegger a Gadamer e Ricoeur, si chiarisce come rapporto dialogico con quell' "interlocutore muto" che è il testo, a partire da un lettore e interprete la cui esistenza o Dasein stabilisce le condizioni a priori dell'interrogazione e comprensione del testo. Il testo non è più, perciò, un dato, è un rapporto fra i poli di un processo che ha sull'altro versante il lettore. In un teorico della ricezione come Wolfang Iser (L'atto della lettura) ciò che più importa è il modo in cui si realizza la comprensione da parte del lettore, dato che il testo sprigiona significato solo nella pratica di lettura, che naturalmente non è sempre uguale a se stessa. Le novità introdotte dall'ermeneutica e dalla teoria della ricezione sembrano delle ovvietà: ma spesso così vanno le cose quando si teorizza. Che cos'è l'ermeneutica se non la versione filosofica di quanto la critica letteraria aveva sempre fatto da quando esiste? E che cos'è la critica letteraria se non critica orientata nel presente e dalle esigenze del presente, cioè critica coinvolta, globalmente responsabile e, secondo la nostra terminologia un po' bellica, "militante"? È in questo senso che la critica va distinta dallo studio letterario di tipo accademico e va connessa con la critica della cultura, e in ultima istanza con la critica della società.
Su quest'ultimo punto può soccorrere T. S. Eliot con il suo pratico buon senso, quando si chiese quali sono "le frontiere della critica": quando, cioè, la critica letteraria smette di essere "letteraria" (usando la letteratura per capire altre cose) e quando, all'altro estremo, smette di essere "critica" (cioè giudicante). Mentre nell'ermeneutica con la nozione e il termine di Dasein si indica, si nomina il presupposto della situazione e della prassi interpretativa, nella critica letteraria si procede compromettendo ogni presupposto circostanziale con i contenuti specifici che intervengono nell'esperienza di lettura. I rischi della lettura vengono da un processo interpretativo in corso; non vengono tematizzati filosoficamente, ma dispiegati nella dialettica discorsiva, saggistica di un racconto critico. La critica non si limita al testo con le sue strutture, né al lettore con le sue reazioni, né alle intenzioni dell'autore. Sarebbe molto difficile, fra i classici della critica moderna, trovarne uno che si fermi al testo, o alle proprie reazioni di lettore, o alle sole intenzioni dell'autore. La critica letteraria è un'estetica in atto, non in teoria, la sola estetica empirica e pluralistica e forse (io almeno lo credo) la sola che conti. I tentativi di definire la letteratura in generale, cercando formule valide per l'intero corso della storia e per tutti i generi, non hanno dato risultati durevoli; anche quando, anzi soprattutto quando, certe teorie e definizioni hanno avuto successo, spingendo la critica all'uso di tautologie rassicuranti: la poesia è intuizione lirica, la poesia c'è quando domina la funzione poetica del linguaggio, l'essenza della letteratura è la letterarietà… Questo formulario non incrementa ma impoverisce e paralizza l'esercizio della critica. E in certe categorie professionali di specialisti fa della lettura un atto preordinato, preconcepito, metodologicamente corretto, praticabile e replicabile senza rischi.
Come sappiamo tutti e come hanno notato anche gli storici della lettura, il primo, uno dei primi lettori "senza metodo" è stato non per caso Montaigne, l'inventore del saggio moderno, informale o personale. Prima di lui, nel Rinascimento, i lettori colti leggevano compilando "quaderni di luoghi comuni" nei quali raccoglievano citazioni, osservazioni, passi letti. Si trattava di strumenti che sostituivano la mnemotecnica. Montaigne si rifiuta di copiare e compilare, "non annota i libri che legge per trarne estratti e citazioni (…) nella redazione degli Essays non utilizza repertori di luoghi comuni, ma compone liberamente, senza attingere a ricordi di lettura o senza interrompere la concatenazione dei pensieri con riferimenti libreschi" (Guglielmo Cavallo e Roger Chartier).
Certo Montaigne non era un critico letterario. Ma i suoi saggi mostrano un uomo che riflette su di sé e sul genere umano leggendo e avendo letto. Come lettore non studioso di testi, rappresenta un momento ineliminabile dell'attività critica. Per essere un iperlettore, il critico deve restare semplice lettore, lettore senza difese, senza pinze, forbici e bisturi, lettore ricettivo che accetta i rischi della lettura, sospende l'incredulità e crede, almeno finché legge, a quello che legge. Il lettore di libri può tenere un diario di letture e può succedere che scriva come Henry Miller un'autobiografia, I libri nella mia vita che, dice, "tratta di libri in quanto esperienza vitale": e le sue conclusioni sono che "bisognerebbe leggere sempre di meno e non sempre di più" e che pur non avendo letto come uno studioso, sentii di aver letto "almeno cento volte di più di quanto avrei dovuto leggere per il mio bene". [...]
Uno dei critici più interessati ai vari rischi della lettura è stato George Steiner. "Leggere bene" ha scritto "significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo (…) chi ha letto la Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell'unico senso che conti realmente". Per Steiner il "leggere bene" non è un fatto tecnico neppure nel senso dei metodi di analisi e interpretazione. È una qualità dell'esperienza. Nel saggio "Una lettura ben fatta" (in Nessuna passione spenta) Steiner mostra una certa nostalgia per i rituali della lettura e per il libro come oggetto di culto e strumento di autoformazione umanistica: "Leggere bene significa rispondere al testo, implica una responsabilità che sia anche risposta, reazione".
[...]Per quanto mi riguarda, corsi il mio rischio leggendo ai miei studenti di Venezia un passo del diario di Kierkegaard che si apriva con questa frase: "L'uomo comune io lo amo, i docenti mi fanno ribrezzo". Mi ero messo nei guai. Dunque: Kierkegaard o l'università? Aut aut. Senza pensarci molto, due anni dopo, scelsi Kierkegaard e mi dimisi dall'insegnamento.

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