Wee Willie Winkie’s World – 2 settembre 1906
Wee Willie Winkie’s World è una delle due serie a fumetti incompiute di Lyonel Feininger (poi divenuto pittore e insegnante alla Bauhaus). Il protagonista, il piccolo Willie, come tutti i personaggi dei primi fumetti è una figura bidimensionale, modellata su un’unica caratteristica: in questo caso, si tratta della facoltà che tradizionalmente è associata ai bambini, l’immaginazione.
«Questa qualità, in assenza di un contesto narrativo, diviene la vera e propria forza motrice della serie. Usando l’immaginazione, Willie riesce ad affiancare alla realtà concreta dalla quale prende spunto, che si può definire oggettiva, quella, propriamente soggettiva, che risulta dalla sua personale rielaborazione della precedente. Il suo essere wee, cioè il suo essere bambino gli permette di trattare alla pari entrambe le realtà, di attribuire loro la stessa valenza ontologica e di unificarle attraverso l’azione. Un gesto compiuto nella realtà oggettiva ha ripercussioni in quella soggettiva (es. il sasso lanciato che fa sorridere la pozzanghera, in alto), e viceversa un movimento osservato nella realtà soggettiva impone una risposta oggettiva (l’inchino di saluto al sole che va a dormire, in basso): è la dinamica del gioco infantile, grazie alla quale Willie evoca una dimensione sospesa, uno spazio potenziale intermedio tra il reale e l’immaginato».
Wee Willie Winkie’s World – 16 settembre 1906
«Il concetto di spazio potenziale è formulato da D. W. Winnicott in relazione al gioco creativo inteso come prima manifestazione dell’esperienza culturale dell’individuo: “È utile, allora, pensare ad una terza area del vivere umano, un’area che non si trova né dentro l’individuo né fuori, nel mondo della realtà condivisa. Questo vivere intermedio lo si può pensare come se occupasse uno spazio potenziale, che nega l’idea di spazio e di separazione tra il lattante e la madre, e tutti gli sviluppi derivano da questo fenomeno. Questo spazio potenziale varia grandemente da individuo a individuo, ed il suo fondamento è la fiducia del lattante nella madre vissuta per un periodo sufficientemente lungo nello stadio critico di separazione del non-me dal me, quando lo stabilirsi de un sé autonomo è allo stadio iniziale” (da Gioco e realtà, Roma 1971, p. 188)».
Ho ripreso qualche stralcio dalla mia tesi di laurea per dare consistenza a un pensiero che ho fatto ieri, durante una fiera del libro organizzata in una scuola primaria.
Una volta sicuri che la maestra non li controllasse, i bambini guardavano i libri che gli proponevo, ne sceglievano uno e, chiedendo il permesso, si sedevano per terra a leggerlo. Se qualcosa li colpiva o li divertiva, la mostravano o leggevano a un compagno o compagna.
Il tutto con la stessa concentrazione e lo stesso trasporto che avrebbero avuto giocando.
Durante la pausa pranzo, un bambino, incontrandomi in corridoio, ha detto: “Bella questa fiera del libro. E bello il libro che stavo leggendo”.
Alla fine delle lezioni, alcuni di loro sono venuti di corsa a riprendere in mano i libri che avevano cominciato a leggere per comprarli.
Ecco, è solo un’impressione, senza prove scientifiche e inoppugnabili: ci sono effettivamente molti che leggono per non dover pensare (come diceva Georg Lichtenberg), ma non credo che i bambini siano tra questi.
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