di Pierfranco Bruni
Le minoranze linguistiche ed etniche (mi riferisco sempre a quelle che hanno un vissuto e un radicamento ben visibile sul piano storico) non si “spiegano” e non si comprendono soltanto da un punto di vista della lingua. La lingua resta un nucleo culturale fondamentale, ma non si può prescindere da una dimensione in cui il senso degli archetipi costituisce la vera anima di una civiltà. La nostalgia senza l’orizzonte degli archetipi non avrebbe senso. Tutta la scuola tradizionalista e spiritualista ci ha insegnato che il mito non può chiaramente spiegarsi con la realtà. Quella scuola che annovera studiosi come Mircea Eliade, Renè Guenon, Cesare Pavese, Ananda K. Coomaraswamy, Elemire Zolla, Alfredo Cattabiani trattano il mito nella nostalgia di quegli archetipi che formano non la struttura di una civiltà ma il sentire di un popolo. Il sentire di un popolo è la spiritualità di un popolo che si esprime grazie ad un tessuto di simboli che sono ben rappresentati in ciò che una comunità ha tramandato. Proprio per questo accanto alla lingua i popoli hanno sempre posto un altro concetto base che è la metafora dell’appartenenza. Ovvero trasferire nel quotidiano una memoria che ha superato gli urti stessi della storia. I popoli e le civiltà non resistono all’incombere della storia soltanto con la lingua ma occorrono altre voci come i simboli. I beni culturali, in questo caso preciso, costituiscono la continuità di una esperienza simbolica. L’espressione dei simboli è la lettura che un bene culturale offre. In questa offerta ci deve essere però anche la capacità di recuperare un “messaggio” che non è storico e neppure etico, ma profondamente estetico-esistenziale. Un bene culturale si legge proprio in ciò che proietta nella nostra coscienza in termini di simboli. E sono i simboli che si proiettano nel futuro, sono i simboli che fanno di un centro storico, di una chiesa, di un complesso nuragico, di un maso, di un frammento archeologico un tracciato sul quale recuperare la vita, ovvero il vissuto, il tempo nel mosaico di una memoria la cui complessità sta nella consapevolezza delle radici. In fondo le comunità di minoranza etnico-linguistica dovrebbero essere il portato di un costante dialogo tra il valore di tradizione, luogo e tempo-memoria. La storia è un depositato con il quale il quotidiano deve sempre fare i conti, ma una civiltà non si regge sul depositato della rappresentazione della storia ma sulla capacità di non perdere i segni della storia trasformandoli in simbolicità dell’essere. Pongo una questione di natura fortemente estetica anche in un rapporto tra territorio, habitat e bene culturale. Perché non si può prescindere dal fatto che un bene culturale rimane sempre un inciso nella coscienza di un popolo e di una comunità. Classificare un bene culturale ha un valore prettamente tecnico, ma non si può prescindere dal fatto che insiste un sistema epistemologico connaturato nello stesso concetto sia di “bene” che di “cultura”. Essendo un patrimonio, chiama immediatamente in causa valenze di identità e quindi di appartenenza. L’analisi richiede non solo compartecipazioni ma soprattutto comparazioni. Nel caso di un dialogo tra minoranze linguistiche-etniche e beni culturali la lettura diventa articolata. In sostanza insistere sul valore dell’ethnos diventa una questione fondante. Su un territorio la cui presenza linguistico-etnica è consistente il bene culturale è stato attraversato da passaggi epocali il cui inciso è storico, è antropologico, è linguistico, è artistico e non solo ma occorre tenere ben chiaro il quadro delle contaminazioni. Una comunità siffatta è completamente impregnata da marcati elementi di contaminazioni. E questi hanno creato valori culturali sommersi ben estesi su un raggio territoriale abbastanza ampio. Non si può pensare che l’influenza catalana in Sardegna (faccio semplicemente pochi esempi) abbia interessato soltanto Alghero o che le realtà Italo-Albanesi siano circoscritte come spazio di influenza solo alle comunità interessate da una particolare koinè (e non parlo particolarmente di sottolineature linguistiche) o che i Ladini siano portatori di tradizione in una geografia che va da Trento all’Alto Adige. Ci sono, invece, ramificazioni ad intreccio la cui comprensione la si legge anche nelle testimonianze visibili sui territori. La cultura bizantina (ancora per restare ad un esempio) non è patrimonio esclusivo degli Italo-Albanesi o delle comunità Grecaniche ma basterebbe avere una mappa delle altre comunità (di cui spesse volte mi sono occupato) per rendersi conto sia dal punto di vista storico-artistico che linguistico-letterario-antropologico come le contaminazioni sono espressione di una eredità non bloccata in una decisa geografia in situ ma articolata in una geografia molto più eterogenea. Questo perché i popoli che provengono da altre etnie sono stati sempre i portatori di civiltà ad intreccio. Le comunità di minoranza etnico-linguistica sono stati abitati nelle loro ciclicità temporali e storiche da popoli camminanti o nei casi meno complicati da popoli provenienti da altre realtà. Sono popoli che provengono e non popoli che ritornano. Quindi sono popoli che hanno cercato di portare la loro identità su un territorio che non presentava gli stessi modelli e quindi la stessa koinè e in alcune circostanze si sono imposti definendo le loro regole, i loro codici, la loro religione con delle norme, riti e liturgie in molti casi. Ecco perché la contaminazione risulta una chiave di lettura fondamentale e importante per cercare di capire, attraverso la lettura di un bene culturale, un precisa identità. Il rapporto tra bene culturale e comunità di minoranza etnico-linguistica si dipana proprio sul versante di una consapevolezza e di una interpretazione dell’ethnos. Senza consapevolezza e interpretazione dei linguaggi simbolici (quindi delle presenze testimoniali quali i beni culturali, appunto) non è più possibile comprendere un territorio che si articola con una realtà minoritaria storica. Credo che, da questo punto di vista, la scientificità di un raccordo (che è sostanzialmente penetrazione di una interiorizzazione di civiltà che si sono succedute e si sono intagliate su un territorio) tra modelli di eredità antropologica e insistenza storico-artistica sia un dato di straordinaria necessità. La lingua tutelata è un risultato di primaria vitalità per la resistenza di una comunità. Ma, ripeto, non basta insistere solo su ciò. Penetrare l’anima di un territorio è penetrare il territorio stesso nella sua molteplicità epocale. Abitare un luogo e/o una identità significa abitare un processo di ricontestualizzazioni che va dal significato di eredità al significato di convivenza tra la storia e la memoria, tra i simboli e i riferimenti che vivono nella cultura degli archetipi che va riconsiderata in un presenta che non può assentarsi dalla tradizione. Leggere un bene culturale in una comunità del genere (ma non solo) vuol dire non assentarsi dalla tradizione che un popolo ha recato all’interno di una temperie e di una geografia sia fisica che esistenziale. In fondo un bene culturale resta sempre l’espressione della spiritualità di un popolo e il segno impresso dalla testimonianza di una civiltà. Basta un piccolo fregio, una linea, un’ombra di colore per recuperare il senso di una appartenenza. E se si insiste nel tentare di decifrare questo senso nel bene culturale vuol dire che lo stesso bene culturale è una manifestazione di profondo radicamento nella civiltà dei popoli.