Questo racconto l’ho scritto per il Tulse Luper Project di Peter Greenaway, l’ho scritto pensando a mio zio, ricordando le storie di mio nonno. Cinque anni son passati, quindi ora si può leggere, se se ne ha voglia.
Qualcuno
Qualcuno di saggio ha detto che il bene vince sul male solo di un punto. Non sembra, più vivo più vedo che il bene non riporta che vittorie di Pirro e anche di misura. Stamane mi è stato vietato di usare il cavallo, serviva a un tedesco. Dicono che i comunisti sono pericolosi perché non rispettano la proprietà, e questi allora? Se mi scappassero parole simili in pubblico finirei al muro, con papà che china la testa e alza le spalle e mio fratello G. che esulta.
G. è un fanatico, parla come un opuscolo del governo, persino papà mi pare inquietato dal suo fervore. Papà la tessera l’ha presa per quieto vivere e questo lo condivido, invece G. ci crede. Ho paura di lui, sta sempre in uniforme da balilla e sembra non dormire mai. La guerra sta uccidendo la compassione, quella stessa di cui i vecchi sembravano pieni dopo la guerra lenta appena passata. Era rancore invece.
Oggi è venuto zio Paolo, in motocicletta!
Sembrava un condottiero, volevo salutarlo ma G. mi ha fermato, dovevamo raccogliere il ferro per il partito. Finito il lavoro sono corso alla moto e zio mi ha raggiunto, volevo abbracciarlo ma G. s’è messo in mezzo e ha detto che avrebbe dovuto darla all’esercito per essere un vero fascista. Zio Paolo l’ha proprio ignorato, è montato e mi ha fatto salire dietro, G. c’ha seguito col pugno alzato. Siamo usciti in impennata riempiendolo di polvere.
Ci siamo fermati in cima alla collina, al bordo di un campo e quando sono sceso mi tremavano le gambe. Zio ha detto che è normale, che il corpo è come un sacco e si riempie delle cose che fai. Poi ha parlato della guerra e delle montagne, aveva l’aria seria come non gliel’avevo mai vista.
È stata una giornata strana, sapevamo che poteva succedere ma non così. I tedeschi sono arrivati coi camion e i carri, ci hanno fatto andare in chiesa e detto che adesso comandano loro, hanno imposto il coprifuoco e fucilato come esempio due sbandati italiani. Ora sto seduto qui e penso a quello che ho visto, quegli occhi uguali ai miei, divaricati, poi illuminati da dentro, infine spenti. Non trovo una buona ragione per non essermi opposto.
Forse sono uguale a mio padre, addirittura maestro e complice di mio fratello G.. Non trovo risposta, chino la testa e alzo le spalle.
Zio Paolo prima di andarsene mi ha chiesto se avevo capito quello che aveva detto sulla guerra e sulla montagna e ho annuito, credo di aver mentito.
Sarà sempre questa la mia vita?
Me lo domando sempre più spesso, a me solo, perché zio Paolo non si vede da un pezzo.
G. è diventato un S.S. e ha sfilato in parata a Torino. La cattiva notizia è che non riesco a essere felice per lui, vedo nei suoi occhi l’idiozia del servo, la buona è che si trasferisce in caserma, la migliore che questa scelta mi solleva definitivamente dall’obbligo di leva.
Le sirene di Torino si sentono sempre più spesso, si vedono bagliori e la gente s’accalca a guardare come fosse una festa, poi si pensa ai giardini, ai palazzi e alle anime che alimentano i fuochi e allora s’abbassa la testa e si alzano le spalle. I mangiapatate organizzano pattuglie, rastrellano case e rubano cibo. Due contadini ebrei sono spariti, il giornale appeso all’entrata della chiesa dice che stiamo vincendo la guerra, ma dubito di tutto. Mi tornano in mente le parole di zio e mi chiedo se ha ragione.
Sono rimasto l’unico giovane in paese e questo ha i suoi lati buoni, non posso giocare a pallone ma ho tutte le ragazze da guardare. La figlia del B. è bellissima, ma non mi degna di uno sguardo. Quando passo provo a fissarla finché il collo mi sostiene, ma non le ho strappato nemmeno una levata di capo. Angelina invece fa di tutto per farsi notare, al contrario della B. ha modi popolari che mettono allegria. Le donne sussurrano quando passo, si chiedono perché sono qui a guardare le ragazze mentre la mia generazione è tutta al fronte.
Mio fratello G. (da oggi solo G.) si vergogna di me!
È venuto per dirci che ora appartiene al Fürher e non dobbiamo più preoccuparci di lui ma della nostra codardia. Papà ha tentato di avvicinarlo, G. ha sbattuto i tacchi e latrato di non muoverci come un tedesco vero, papà è rimasto immobile, G. è uscito col moto dell’oca e il fucile ben ritto in spalle.
Io e papà abbiamo chinato la testa e alzato le spalle.
Zio Paolo non si è ancora fatto vivo, ogni giorno guardo le montagne e ripenso a ciò che mi ha detto, altre volte penso al suo funerale. Lo immagino allegro, pieno di donne coi fazzoletti neri e nessuno che piange.
Tutte le cose di casa, la cascina stessa, l’intero paese sembrano coperti di polvere.
La notte, un tempo rifugio, oggi è il sudario messo sulle cose che non vanno mostrate. In essa non trovo quiete, non nero, ma bianco senza luce.
Non abbiamo notizie di nessun tipo. La radio del paese fa da calcio ai patri fucili, quella del prete forse s’è salvata ma non sono sicuro. In chiesa ho saputo che hanno impiccato due giovani di Pinerolo, li conoscevo, avevano fatto la stagione qui una volta. I mangiapatate li hanno sorpresi a preparare un sabotaggio. Il prete comunque non ha fatto cenno, nell’omelia nemmeno li ha nominati.
L’inverno è rigido, i mangiapatate dicono che è l’ultimo inverno di guerra, Mussolini lo dice dal 41.
Hanno richiamato tutti gli uomini meno anziani, ho paura che l’invalidità di papà mi proteggerà ancora per poco. I fascisti sono spariti, forse adesso mandano loro a rastrellare, ma sono notizie fragili, sussurrate, telegrafo dei campi lo chiamo io. Le ragazze quando passo non mi filano più, hanno paura sia malato, o comunista, che non vado in guerra. Solo Angelina ancora mi tira qualche sorriso, ma fa caso a non esser vista.
Oggi è domani. Quel domani tanto atteso.
I russi hanno spaccato, abbiamo potuto riunirci tra noi in chiesa, i mangiapatate non c’erano ma il prete diceva lo stesso le notizie in dialetto. Sembrava invasato, dentro e fuori della sagrestia, dove, ora lo so, è sopravvissuta la radio. Una volta s’é pure dimenticato di togliere le cuffie e l’abbiamo visto tornare dentro strattonato dal filo e abbiamo riso, abbiamo riso!
I mangiapatate erano tutti al comando e hanno lasciato solo una sentinella fuori del portone. Per la prima volta da settembre ho ritrovato le solite facce. Zio Paolo dice che noi italiani del nord siamo popoli servi, che la storia lo dice, infatti eccoci a maledire l’invasore a bassa voce, implorandone un nuovo per cui chinare la testa e alzare le spalle.
Poi sono tornate le guardie e hanno parlato loro, con l’italiano duro e sgrammaticato, hanno detto che i traditori saranno puniti e chi non li denuncia pure, che presto torneranno i fascisti a presidiare il paese. Abbiamo chinato la testa e alzato le spalle.
Dalla riunione in chiesa nulla è cambiato, se non le pattuglie dei mangiapatate diventate più folte e frequenti, ma l’atmosfera è tranquilla, il lavoro nei campi riprenderà presto. L’inverno è secco e la terra sarà frigida come una donna offesa, la cosa che preferisco è che rivedrò Angelina, forse proverò a parlarle.
Di zio Paolo non riesco a parlare, le parole restano nel pennino.
Un tedesco ieri è venuto a dire che G. invia germanici saluti dal fronte. Si dice che gli uomini si capisce come sono quando li guardi negli occhi, coi mangiapatate però non funziona, hanno l’elmetto basso che quasi appoggia sul naso e occhi che riflettono. Piccoli specchi che non rimandano che ciò che guardano. Non so cosa provare per loro, per il momento chino la testa e alzo le spalle.
Non succede niente.
La storia sui libri sembra una cosa veloce, venti pagine per tutto Napoleone, dall’Elba a Waterloo appena due. Hitler parlava di una guerra veloce, un lampo attraverso l’Europa. Gli unici lampi che si vedono qui sono quelli del faro che hanno montato sul campanile. Papà è sempre meno presente, lascia dette le commesse a Maria e poi sparisce, non so dove e non lo chiedo.
I mangiapatate non ci permettono di iniziare a lavorare finché non tornano i fascisti, temono che qualcuno approfitti dell’andirivieni dai campi per mischiarsi ai braccianti, non so come fanno a non riconoscerlo un uomo là in mezzo, ma chino la testa e alzo le spalle. Se passa la luna rischiamo il raccolto.
Ho avuto una visita strana poco fa, era il B.. Avrei voluto chiedergli qualcosa di sua figlia ma non c’è stato modo, ha parlato subito. Guardava intorno, ha detto sussurrando che zio Paolo gli ha parlato di me, ho chiesto se sa dov’è, allora è spuntata Maria. Lui ha fatto finta di nulla, ha alzato il cappello dicendo che sarebbe tornato per sapere quando s’inizia la semina. Non sono nemmeno riuscito a dirgli di salutare la figlia. Spero torni presto, altrimenti andrò io da lui.
I fascisti sono tornati e hanno dato finalmente il via libera alla semina. Dovremo seminare a turni e ogni gruppo sarà scortato. Hanno detto che presto avremo il cinematografo e che le attività di gruppo diverse dal lavoro sono ancora vietate. Abbiamo urlato al duce, chinato la testa e alzato le spalle.
Ero in fila per iscrivere la fattoria ai turni di semina e nella fila di fianco per i braccianti c’era Angelina, mi ha guardato tutto il tempo, ma quando mi sono girato ha fatto finta di niente. La figlia del B. invece non c’era.
Papà è rimasto ad ascoltare, appena hanno dato il permesso è sparito, non lo vedevo da due giorni, è magro, gli occhi sono affacciati agli zigomi, forse dovrei parlargli, ma è difficile. Non ho mai trovato il modo buono di scavalcare le rughe abbondanti e parlargli come a un’anima, cogli occhi alti, e nemmeno lui a ben pensarci mi ha mai parlato così. Aspetterò di vedere se il lavoro lo rimette in sesto.
G. non ha mai scritto, dopo l’ambasciata del commilitone non abbiamo avuto notizie, a sentire il cinegiornale è a due passi da Mosca cogli altri S.S. Il cinegiornale è diverso da quelli che vedevo a Torino quando studiavo, questi sono in tedesco e c’è un fascista che urla sopra l’audio originale la traduzione, non si capisce niente, ma la Russia me la figuravo diversa. Uscito ho incontrato finalmente il B., ho tentato di avvicinarlo per chiedere di sua figlia ma lui mi ha solo stretto la mano passando e c’ha lasciato un biglietto dentro, l’ho infilato subito in tasca. Attendo che Maria dorma prima di leggerlo, non mi fido di lei. Ho pensato che sta avvelenando papà, quando gli prepara la zuppa noto uno strano sorriso sul suo volto grasso. La fiducia è un bene raro di questi tempi ed è solo uno dei sentimenti che la guerra ha nascosto. Nessuno si guarda o parla ad alta voce, nemmeno nei campi, persino il prete fuori di chiesa non parla a nessuno.
È ora, posso leggere il biglietto.
C’è un ospite!
Ieri stavo per aprire il biglietto del B. e ho sentito un rumore in corte. L’ho trovato in cucina, un ragazzo, giovane, spaventato, tedesco per tutto, tranne per gli occhi neri e spugnosi. Ha parlato in italiano sdentato ma ho capito che i suoi lo cercano, che ha bisogno di aiuto. Gli ho dato da mangiare e offerto il fienile o la cantina, ma solo per due notti e a patto che dicesse che io non sapevo nulla. Sono spaventato, se Maria se ne accorge… Lo manderò via prima del prossimo turno di semina, saperlo lì mentre la pattuglia invade la corte non lo reggerei. Posso finalmente tornare al biglietto.
È una richiesta precisa, un biglietto sconveniente, pericoloso addirittura, non ho ancora deciso se nasconderlo o distruggerlo. Dovrei diffonderlo verso persone fidate, ma chi sono queste persone fidate, come si riconoscono? Prendiamo il B., non mi sarei mai fidato di lui io!
L’unico motivo che mi tenta e l’idea di rivedere zio Paolo, è un’ossessione, lo sogno, forse sono sogni premonitori. È in moto come l’ultima volta, ma ha un fazzoletto rosso al collo che non gli ricordo. È sul ciglio della strada e indica le montagne.
Ho solo due giorni per decidere, l’appuntamento è alle due al bosco rosso, scarpe pesanti e tutto il cibo e le armi che si può se si può. Anche il turno della semina è tra due giorni, ma due ore più tardi, potrei rivedere Angelina se resto, oppure la B. che se non c’è stavolta pretendo di sapere!
Mi piacerebbe davvero incontrare zio Paolo. Poi guardo la cascina, vedo le crepe nei granai e le poche mucche ammalate, allora chino la testa e alzo le spalle.
L’ospite tedesco è disciplinato, ho tenuto Maria lontana il più possibile da quando è arrivato.
È la prima volta che faccio qualcosa di così apertamente illecito. Più di quando ho nascosto il medaglione di nonna alla raccolta dell’oro, per quello me la sarei cavata con due manganellate, qui rischio il muro. La comunicazione coll’ospite è difficile, capisco solo che è terrorizzato, dice che noi non capiamo, che Hitler è toifel, non so che vuol dire, né se si scrive così, ma non sembra una cosa bella.
Zio Paolo è stato qui!
Una visita breve, tanto intensa da non lasciarmi pace da quando è accaduta, non sono riuscito ad essere felice subito, ho avuto paura prima, tanta che non l’ho nemmeno abbracciato. Dice che non si può aspettare, che anch’io devo fare la mia parte. All’inizio non capivo, stavo attento solo che non si aprisse la porta. Aveva un aspetto diverso, più simile ai sogni, perfino il fazzoletto rosso che immaginavo era al collo e un fucile in spalla, non previsto invece, che mi ha messo ancora più imbarazzo. Non s’aspettava un’accoglienza simile, conosco il disegno che fa la delusione quando gli passa negli occhi, tante volte l’ho visto dopo le discussioni con mio padre. Ma a me era la prima volta che rivolgeva quello sguardo. Dice che i fascisti presto cadranno, che i russi sono quasi a Berlino.
Dopo quelle dal prete sono le prime notizie clandestine che ho. Ma papà dice che zio ha molta fantasia.
Zio si aspetta di vedermi stanotte al bosco rosso, ha detto che ha sempre ammirato la mia dissidenza silenziosa, per il fatto che non partecipavo al sabato fascista e non mi ero arruolato. Non ho avuto cuore di dirgli che ero esentato come unico amministratore della cascina e supporto all’invalidità di papà. Ha aggiunto che non è più abbastanza, che ora è il momento di alzare la testa e allargare le spalle. Ha raccontato di treni pieni di prigionieri che spariscono a nord e di fascisti che rastrellano i boschi e le campagne. Dice che non sarà facile, che conta su di me, ché non è con gli sbandati che si vince la guerra. Poi ha guardato il cielo e detto che doveva andare, gli ho preso la mano e l’ho fermato. Gli ho raccontato del tedesco in cantina, zio Paolo mi ha detto di portarlo da lui, ho provato a dire che non era prudente, che Maria si sarebbe svegliata, ma non ha sentito ragioni. Gli ha parlato in tedesco, zio Paolo mi stupisce sempre, il mangiapatate l’ha seguito guardandomi storto, zio ha detto che sarebbe valso tre dei nostri. Volevo dirgli che il ragazzo non era amico dei nazisti, ma non ho fatto a tempo, quando ho alzato gli occhi erano già spariti. Il mangiapatate non ha nemmeno ringraziato.
Mancano poche ore, devo decidermi. Aspettare che la pattuglia invada la corte e passare il giorno a guardare Angelina e magari gustarmi il ritorno della B., oppure raggiungere bosco rosso colle scarpe e la saccoccia pesanti. Zio Paolo dice che se non vado presto sarò costretto ad arruolarmi, non sa che è impossibile.
Li hanno uccisi tutti.
Che potevo fare? Urlare, avvertire, cosa sarebbe cambiato? Avrebbero ucciso anche me. Zio Paolo avrebbe fatto lo stesso, mi dico. Sono sicuro che nessuno mi ha seguito, che nessuno ha trovato il biglietto, giuro! Avevo deciso di andare, ma solo per salutare zio e spiegargli che non posso mollare la fattoria, che uomini come me sono prigionieri delle loro mansioni. Io sono un contadino. È una colpa non essermi alzato dal fosso per urlare il pericolo quando ho visto arrivare la pattuglia?
Fortunatamente sono tornato in tempo per la semina, la scorta è stata meno invadente dell’altra volta e abbiamo fatto cinque campi. Ho anche potuto giocare di sguardi con Angelina. La B. non c’era nemmeno stavolta, sono certo che non era la sua la chioma bionda schiantata nel gruppo al bosco rosso. Angelina mi ha sorriso apertamente e le altre donne non hanno sussurrato mentre passavo.
Ho capito perché quando sono rientrato. Maria mi ha consegnato il foglio su cui è ingiunta la partenza immediata per il fronte, quando canterà il gallo. Dice che la situazione vigente fa decadere ogni privilegio.
Zio Paolo aveva ragione dunque, se avesse avuto ragione su tutto?
Questa notizia è stata un vero colpo, ho superato i divieti di Maria e raggiunto la stanza di papà col foglio ancora in mano. Lui non s’è scomposto. Era nel letto, le guance ridotte un ricordo, ha detto che zio Paolo è morto.
Gli ho chiesto se aveva ragione.
Lui non ha risposto. Ha alzato il dito verso la lettera. Gli ho chiesto se poteva fare qualcosa, lui ha detto che il podestà m’ha aiutato finché ha potuto. Io ho detto che non voglio fare il soldato, lui ha detto che non ho scelta. Ho chinato la testa e alzato le spalle, lui anche. Finalmente l’ho guardato, eravamo due specchi, riflessi uno nell’altro all’infinito, e ci ho visti, lì, in fila, a chinare la testa e alzare le spalle.