Stasera lo so. Le ho finalmente chiesto come si chiama. Abou Maher si era allontanato, eravamo lì, io e lei, sedute una di fronte all'altra. Lei, siriana, piuttosto in carne con il suo vestito sintetico colorato che, benché lungo e largo, non riesce a nascondere le sue forme davvero abbondanti. Lei, con la testa coperta, più da un fazzoletto da donna dell'Italia del sud, cosa che forse è, che non da un canonico velo "religioso". Lei, seduta su un secchio di plastica rovesciato. Io, che essendo l'ospite o, meglio ancora, la straniera, le siedo di fronte, nella sola poltrona disponibile. Cominciamo a parlare, parliamo, parliamo, parliamo, sottovoce e con discrezione, sommessamente e di nascosto da Abou Maher, che è sempre meglio non senta proprio tutto."Certi periodi sono tristi, ci sono giorni in cui si sta fermi ma i pensieri corrono altrove ed è difficile farli stare buoni. Si pensa talmente tanto che la testa quasi scoppia." Aggiunge che piange e si sente debole quasi ogni giorno. Ma oggi è un giorno felice, seppur nella sua tristezza. Oggi ha ricevuto una telefonata dalla Turchia, quella di suo figlio che non vede e non sente da quattro anni. Sta lì, piccolo e infreddolito in Turchia, nelle tende che offrono riparo ai rifugiati siriani. Lui ha soltanto 14 anni ed è lontano da sua madre e dalla sua famiglia. Lei non ha potuto fare altro che racimolare dei soldi per comprare qualche vestito e mandarglielo, "come si fa a lasciare morire di freddo un bimbetto di 14 anni, solo soletto e in un Paese che non è il suo", mi confida decisa. Abou Maher, che è sempre un po' burbero, non voleva spendere dei soldi per quegli indumenti perché il denaro è poco e quindi non si spreca o forse perché il figlio non è il suo. Ma lei, un po' come tutte le mamme, lo ha lasciato dire e poi ha fatto di testa sua.
Mentre parlavamo, tra donne, anche se con mondi e vite più che diametralmente opposte, ho colto il momento e mi sono buttata: "Ma tu come ti chiami?" "Io?" "Sì, tu.", quasi stupita, come se per parlare non fosse importante sapere il nome dell'interlocutore, "Khayri, ma preferisco essere chiamata Oum Bashar, dal nome del mio primo figlio", mi dice con un sorriso. E mi ripete che ha sei figli, quattro ragazzi e due ragazze. Che non vede da tempo, ecco perché la testa continua a girare e il cuore fa male, spesso. La osservo, con le lacrime agli occhi ma con quel timido sorriso sempre pronto a fare capolino. Ci guardiamo, senza parole. Veloce e abile mi butto su un altro argomento. Tanto si deve andare avanti, o almeno provare ad illudersi di riuscire a farlo, lo sappiamo entrambe...
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