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Leonardo Bonetti: “Racconto di primavera”, Marietti 1820, 2010

Creato il 30 novembre 2010 da Viadellebelledonne

Leonardo Bonetti: “Racconto di primavera”, Marietti 1820, 2010
Dopo il successo ottenuto con il suo primo romanzo “Racconto d’inverno” (premio Nabokov 2009), uscito sempre per Marietti 1820, l’autore prosegue con quella che diventerà la sua tetralogia, i cui quattro capitoli saranno scanditi dal nome delle stagioni. Ecco dunque il secondo volume, “Racconto di primavera”.

La scrittura crea una serie di figurazioni che alla fine conducono al centro, al punto di attrazione: l’immagine o il sentimento dominante. È una specie di evoluzione che si gonfia per poi mettere a nudo il contenuto. Una particolarità di Bonetti.

Il protagonista è un giovane che sta scoprendo il mondo.
Siamo nelle Marche, nei pressi di Senigallia. Arcevia è il piccolo paese dove queste scoperte avvengono. Lì c’è anche una sezione del partito comunista, in cui le cose non vanno bene e si discute animatamente.

Vicino, a Monte S. Angelo, era avvenuta in tempo di guerra una strage di civili, anche bambini, ad opera dei tedeschi. Mimmo, uno dei personaggi che incrociano la vita del protagonista, ex minatore molto attivo nella sezione comunista, da ragazzo fu portato dal padre a vedere quell’eccidio, perché ricordasse: “Mimmo ricordava (perché “come si fa a dimenticare?”) le teste dei ragazzini da una parte, i corpi dall’altra e la prima sigaretta offertagli dal padre per non fargli sentire il puzzo.

Il figlio Lorenzo è un po’ diverso, meno impulsivo. Studente, è l’orgoglio del padre, che lo vorrebbe più combattivo.

Guerrino, fornaio e pittore, più giovane di Mimmo e sposatosi con una russa, Mira, è un altro comunista della sezione di Arcevia. Mimmo e lui non fanno altro che discutere, anche litigare.

In casa di Guerrino vive Gaia, nipote rimasta orfana, coetanea del protagonista. Con lei fa le sue prime esperienze amorose, e prova anche per la prima volta la gelosia, giacché Gaia concede e non concede, e ha già avuto storie con altri compagni.

La frequentazione della casa di Guerrino, a causa della presenza di Gaia, a poco a poco fa emergere uno dei personaggi più sofferenti della storia, Mira, la moglie di Guerrino, venuta dall’Ucraina, e mai adattatasi alle usanze del nuovo paese.

Gaia sa delle sue crisi depressive e cerca di aiutarla, anche consigliandole libri da leggere, ma non serve a niente. Guerrino non ne è a conoscenza e scambia i malumori di Mira per le solite lamentazioni delle donne. Sa però come lenirla.

L’autore ci sta introducendo nella carne viva di una vita domestica, in cui lavoro, disagio, amore, inquietudini si mescolano e generano limiti e condizionamenti dell’esistenza.

Gaia è vista come l’amorosa da conquistare, difesa dalla barriera dei suoi segreti. Il protagonista seziona ambienti ed intimità, interprete incerto ma implacabile. Un filmato, ad esempio, che ha colto di sorpresa la ragazza distesa su di un divano, come pure alcune lettere intime scritte da suoi giovani spasimanti, generano un flusso e un riverbero scambievole di sospetti e di sentimenti. Niente è mai semplice e definibile una volta per tutte.

Ci sono momenti in cui la scrittura di Bonetti mostra il suo orgoglio, come ad esempio nel capitolo “I nonni povera gente”. Si fa succosa, umorale, di una scioltezza quasi toscana: “I genitori, Remo e Filomena, sembrarono non capire sulle prime, lui a togliersi il cappello mostrando i capelli appiccicati sulla fronte, la testa tagliata in due come un melone rosso e bianco. Quando provò a pagarlo, il dottore non ne volle sapere. Era un galantuomo, raccontava Irma ogni volta.

È una scrittura che ha una ascesa continua: prima un po’ refrattaria a mostrarsi, come un’adolescente pudica, infine ambiziosa ed orgogliosa di sé. È da questo capitolo, infatti, che si esibisce con danze e ricami da seduttrice sicura della propria vanità.

Nasce da tutto ciò un apparentamento suggestivo con l’asprezza di un ambiente rurale, che fa della sua ruvidezza una specie di base musicale su cui si innestano le note di questa scrittura corposa e prepotente: “Era di gran pancia Ulisse, infatti, e non passava giorno senza che gli venisse intimato di buttarla giù. Ma lui, con naturalezza, evitava di dare risposta, sua unica reazione un brontolìo interiore di cui non si percepiva che una specie di debole ed incomprensibile vagito. Avrebbe dovuto centellinare le molliche ma, testardo, eccolo mangiare un tozzo di pane contro ogni interesse: la mattina col caffellatte nel bricco rosso e mezzo annerito; la sera, prima che fosse apparecchiato, insieme alle noci e a un bicchiere di vino rosso. Un uomo vitale e pieno di energia, Ulisse, il ventre teso per dispetto, il fisico forte contro ogni cedimento.

La famiglia in cui praticamente vive il protagonista, la famiglia di Guerrino e di Mira, occupa sempre di più la scena e assume il ruolo di un ambiente formativo che avrà molta incidenza sul futuro del ragazzo. I quotidiani travagli che la scompongono sono le prime efflorescenze di una vita che dovrà marcarsi anche su di lui.

Vi è espressa, inoltre, una intimità che emana nostalgia e tepore, come se lì dentro fosse rappresentata la parte più bella dell’esistenza umana. Come se al protagonista fosse data l’opportunità di assaporarne il nucleo essenziale, irrinunciabile, prima di intraprendere il proprio personale cammino. Le bambine Ghiga e Titti, più ancora della coetanea Gaia, sono il punto di contatto di una vitalità che nessun uomo può perdere per sempre, ma anzi, è destinata a presentarsi dentro di noi e a sollecitarci ogni volta che ci troveremo di fronte allo smarrimento e alla paura: “Una carezza che attraversa la casa con eleganza, seppure ingenua, ecco cos’era Titti.” Il breve capitolo dedicato a Titti, “Titti e il pattinaggio” è uno dei più densi e sensibili del romanzo: “Un’ombra la macchiava, un’incrinatura su una fragile superficie. In quel momento non mi sembrò ci fossero tra noi dodici anni di troppo. Fortunatamente fu solo quella volta. E me ne dovetti dimenticare in un minuto per potermene ricordare per sempre.

Il libro appare, perciò, come un ritorno della memoria ad una fase nascente della vita, in cui ogni emozione si imprime su di noi e ci rende speciali e unici.

Le descrizioni dei personaggi, soprattutto quelle di Mira, di Titti, di Ghiga e di Gaia (descrizioni al femminile, dunque) sono sempre rapide e intense, tali da trasformarsi subito in tracce dell’anima. Questa è Mira, desiderosa del mare: “Immobile e sdraiata sull’asciugamano a non pensare e a godere del calore sul corpo abbronzato e pieno di creme. Lei desiderava solo essere il suo corpo. Il suo corpo dopo il parto, diventato di nuovo il corpo di ragazza bionda ucraina e vergine d’una verginità assoluta perché animalesca. Lei era un animale e sarebbe ridiventata subito, ancora, asciutta e agile pur dopo tre figli e più di trentacinque anni.

Questa è la mamma dell’amico Lorenzo: “la mamma di Lorenzo pareva una piccola creatura insignificante, una donnina consumata dentro la vita come un fuoco ilare, insipido; sebbene la vita, dico, ci parli anche in quel modo, con quella stretta di mano debole, molle, un po’ indolente.

Altri personaggi femminili, come le amiche di Gaia, Francesca e Giulia, rimbalzano ogni tanto a formare un mosaico nel quale spavalderia, incertezza dei sentimenti, paura e gelosia, appaiono come pietruzze malferme in grado di trasformare la giovinezza in un viaggio dalla meta indefinita, e forse irraggiungibile.

Abile nei ritratti, vi giunge a volte partendo da lontano e creando l’atmosfera giusta, com’è il caso del professor B. della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Urbino, dalle “folte sopracciglia, candide esattamente come i capelli a spazzola, profumati i capelli e le sopracciglia di una bonarietà d’altri tempi, delle buone maniere dei tempi che furono. Ma sopracciglia arcuate, svirgolate verso l’alto, come di gatto o felino che dir si voglia.

Tratti minimalisti affiorano a poco a poco e s’impongono: minute discrezioni di colloqui e di faccende che l’autore non desidera consapevolmente liquidare con una sintesi, ma drogarle nella composizione di un mosaico minuzioso come la vita di tutti i giorni.

Talune con una certa pervasività, come la partita a scacchi tra Lorenzo e lo spretato Igor: “Quella partita lunga un secolo. Lorenzo, in particolare, vi metteva qualcosa di ossessivo, una specie di ‘ottusa variazione della follia’ come una volta l’aveva definita Igor di fronte a me e a Gaia.

Igor è un personaggio mezzo bohemien e mezzo filosofo, indagatore indefesso dei fili che reggono l’esistenza nel vano tentativo di decifrarli. Ne discute con passione, soprattutto quando il suo interlocutore è il serioso e amletico Lorenzo.

Bonetti non si tira indietro su temi ardui come questi e vi dedica pagine che paiono nascere dall’imponderabilità e dalla indefinibilità di tutto ciò che passa dinanzi agli occhi del protagonista.

Insieme coi compagni, alcune passeggiate nei boschi danno l’opportunità di riflettere sulla condizione umana e misurano la distanza tra una natura libera e selvaggia e la ridotta capacità dell’uomo di sentirsi libero: “La tua libertà la misuri solo se sei in grado di liberarti.

Una breve scossa di terremoto congiunge di nuovo l’uomo a Dio. Si affaccia il divino su di una natura che potrebbe essere anche crudele, se non ci fosse Dio a dare una speranza di misericordia. La processione che si snoda sulla collina è il cammino obbligato dell’uomo ogni volta che si smarrisce.

Non è un caso che nella parte finale il protagonista si immerga nella natura alla ricerca di Titti e Ghiga, scomparse misteriosamente da casa, ed è lì, nella natura, che le ritrova, all’alba del giorno di Pasqua, mentre dentro di sé avverte l’avvio di una propria attesa resurrezione: “mi sentivo invaso dallo spirito di ogni cosa, come potessi avvertire le acque e i metalli sotto terra, una resurrezione promessa una volta, poi non mantenuta e oggi, di nuovo attesa.

In mezzo al bosco signoreggia un vecchio albero-trino. Intorno a sé sembra richiamare una specie di danza della vita. Insieme a Titti e a Ghiga sembrano accompagnarsi figure eteree, come anime universali: “Senza quell’albero – pino, cedro o cipresso – niente avrebbe preso forma e la vita sarebbe inaridita. Perché a quel punto le fronde si popolarono di piccoli esseri deformi, ilari, sgambettanti. Ed io non potevo credere ai miei occhi mentre i riflessi della luce si prendevano gioco di me in modo tanto dolce.

Il cammino del protagonista sta per concludersi. Una specie di misticismo lo invade, e sarà ancora un’ascesa, quella verso il Monte della Guardia, che riuscirà a sanare le tristezze e le delusioni della sua giovane vita.



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