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Les Revenants di Fabrice Gobert (2012): quando la “fiction” e la creatività geniale abbattono le barriere, anche linguistiche. E ancora sul gotico-sublime.

Creato il 09 marzo 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

LesRevenantsTitleCarddi Rina Brundu. C’è un paesino delle alpi francesi immerso nel verde e immerso dentro le incantate atmosfere di montagna, c’è una piccola comunità ideale, edenica nella sua sostanza, c’è un lago a quattro passi sbarrato da una diga ultra-moderna, c’è un villaggio abbandonato sotto le acque del lago, sepolto dopo il collasso della vecchia diga, c’è un antefatto tragico: un pullman pieno di ragazzi in gita che sbanda lungo un pericoloso versante e finisce in un burrone. Poi c’è una ragazza rediviva, Camille, che, anni dopo quel drammatico incidente che ha straziato le vite di infinite famiglie nel villaggio, si ripresenta in casa come nulla fosse. E ci sono altri “ritornati” che alla maniera di quell’adolescente vogliono riprendersi il posto che era loro prima… prima di morire. Quindi ci sono musiche bellissime e trascinanti, c’è una recitazione attorale impegnata e credibile, c’è una regia sapiente, una sceneggiatura non intrusiva, una complessiva atmosfera gotica semplicemente sublime. Captivating!

Tutto questo è molto di più è Les Revenants (The returned, 2012), la serie televisiva creata da Fabrice Gobert e andata in onda, in Francia, sul canale a pagamento Canal+. Si tratterebbe di un adattamento dell’omonimo film del 2004 diretto da Robin Campillo. La produzione transalpina ha vinto un International Emmy e ha ottenuto una serie di critiche entusiaste anche sul radical-chichissimo Le Monde, nonché il plauso e l’ammirazione del mitico Stephen King. Per me, cultrice di produzioni sci-fi e del “gotico sublime”, trovare il dvd con le prime otto puntate (tutte le puntate della prima serie), in un dvd-shop dublinese, dove di norma (checché ne pensi il bravo regista Sorrentino), passa poco e nulla che non sia originale produzione in lingua inglese, è stata una vera sopresa; un’emozione alla stregua delle emozioni che prova un librofilo quando entrando in una libreria di libri usati si trova tra le mani una rarità.

La fruizione in lingua originale francese, con sottotitoli in inglese, è invece consequentia-rerum: inoltre, non si può iniziare a guardare la prima puntata senza guardare la seconda, senza guardarle tutte. E quando si arriva all’ultima ci si domanda semplicemente quando arriverà la seconda serie. Neppure la delusione nello scoprire che quella seconda serie è attualmente in fase di scrittura e non sarà disponibile per lo spettatore prima del 2015, è pillola facilmente digeribile. Una lezione questa per i produttori italiani delle “fiction” agiografiche, impregnate di amore-cuore-mandolini e spiro-tanto-sentimento, tutte tese a imbambolare il pubblico mentalmente ottuagenario delle reti ammiraglie, tutte tese a non fare troppo rumore per nulla che per-carità il megagalattico ci guarda seduto sulla sua poltrona in pelle umana.

Ma cos’è che rende questa produzione transalpina, qualcosa di molto diverso da un’altra serie dedicata agli zombie (una figura gotica, questa, che non ho mai sopportato!)? A mio avviso è soprattutto la maniera impegnata, matter-of-fact con cui riesce ad imbastire un credibilissimo discorso sulla morte. Sulle “situazioni” che portano alla dipartita di ciascun individuo, sulle cause di quelle “situazioni”, sulle modalità con cui le diverse vite dei “destinati a morire” si intrecciano e procurano sub-dinamiche quotidiane a volte importanti, a volte determinanti. Ancora, a fare una “differenza” è la riflessione a tutto tondo sul nostro destino ultimo che permette di fare: le interrogazioni sulla validità etica dell’atto suicidario, o la sua mancanza. Le interrogazioni sulla validità etica del nostro esistere as-a-whole, o la sua mancanza.

Una creazione, insomma, esteticamente valida e sartrianamente “engageé”: oggidì, una rarità!

Featured image, logo di Les Revenants.


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