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Lettera a G.

Da Andrea Venturotti

Mi sembra di vederti ancora lì, seduto sopra la tua Ducati Monster S4R, comprata a fatica con i tuoi risparmi. Nera con la striscia bianca in mezzo. Motore potentissimo per un pilota abile come te. In tre cose eri il migliore: nel lavoro, con le moto e con le donne.

Quella maledetta moto. E pensare che il giorno prima di quell’incidente balordo, mi hai portato a fare un giro sul tuo ducati. Senza dire niente alla mamma, sennò chi la sentiva quella. All’inizio avevo una paura assurda, lo ammetto. Ma una volta che hai cominciato a guidare, quella paura è diventata adrenalina allo stato puro. Sentivo i brividi da tutte le parti e il cuore sembrava battere alla stessa velocità della moto. Eravamo una cosa sola: io, te e la moto.

Il giorno dopo, sabato 31 marzo 2007, si è fermato tutto.

Appena uscivo da scuola, avevo l’abitudine di venirti a trovare e mentre si chiacchierava del più e del meno, si stuzzicava sempre qualcosa insieme. Quel giorno, non so spiegarti il motivo, non sono passato. Sono corso direttamente in casa, forse ero stanco, forse non ne avevo voglia. Non lo so. Ma so esattamente cosa successe dopo.

Erano da poco passate le cinque quando il citofono suonò. Cosa insolita poiché quasi tutti quelli che conosciamo vengono direttamente a bussare alla porta. Comunque, era una nostra parente crocerossina la quale era venuta a conoscenza del tuo incidente in moto. Non ci disse molto di più, non sapeva le tue condizioni, ci disse solo di portarti qualche vestito all’ospedale. Così, mamma, cercò di arruffare dal tuo armadio più cose possibili mentre ripeteva: “Anche se è solo questione di un paio di giorni, non si sa mai cosa li possa servire.” Tutto ciò senza allarmare troppo la nonna, cioè tua madre. Una volta finita la selezione dei vestiti, salì in macchina con mio fratello per raggiungerti. Io restai a casa per far compagnia alla nonna mentre finivo delle equazioni. Odiavo e odio tuttora la matematica, ma quel giorno la detestavo assolutamente.

Non passò molto prima che vennero a farci visita la zia con suo figlio. Era tanto che non vedevo mio cugino, era molto cambiato. Forse quel giorno in particolare. Dopo aver raccontato a loro quel che sicuramente sapevano già, mio cugino attirò la mia attenzione con la scusa di una sigaretta. “Vieni a farmi compagnia mentre fumo?”, mi disse. Io, senza sapere cosa stesse tramando, accettai. Lo accompagnai fuori e, mentre aspirava lentamente, capii che c’era qualcosa che non andava. Mi disse, con voce tremante, che avevi perso la vita in quell’incidente. All’inizio ero incredulo e non avevo capito, o forse non volevo capire, quello che mi aveva appena comunicato. Non ci credevo: niente da fare. Ma poco dopo arrivò la conferma: cominciò ad arrivare una miriade di persone tutte con la stessa espressione. Parenti, amici, conoscenti e tutti i vicini si erano riuniti a casa tua. In quella casa dove ci sei nato e cresciuto, dove continuavi a vivere insieme ai nonni.

Secondo la ricostruzione dei testimoni e degli agenti un furgoncino ti avrebbe tagliato la strada. Alla guida c’era un rumeno con un tasso alcolico di 3 o 4 volte superiore alla norma. Non si è nemmeno fermato subito, lo sono riusciti a bloccare delle macchine che l’hanno inseguito. Lo scontro con il veicolo ha creato come una sorta di “catapulta” che ti ha fatto letteralmente volare per tanti, troppi metri finché non ti ha fermato un palo. Quello scontro ti ha fracassato la cassa toracica spingendo in dentro le ossa arrivando a perforarti un polmone. In aggiunta, ti sei tagliato una vena importante della gamba che ti ha causato una perdita eccessiva di sangue. Eppure, dopo lo scontro col palo, hai avuto addirittura la forza di rialzarti e prendere la moto, eri sotto una specie di shock nervoso. Il tuo cervello non percepiva il dolore reale ma, senza accorgertene, stavi già cominciando a morire. Almeno questo è quello che volevi fare: dei passanti ti hanno impedito di muoverti da terra senza toglierti il casco. Una volta arrivato in ospedale, hanno provato in tutti i modi a rianimarti ma non c’era più nulla da fare. Dicono che tu non abbia sofferto più di tanto. Lo chiedo a te: è vero? Cos’hai provato un secondo prima che tutto finisse? Qual è stato il tuo ultimo pensiero?

Mi capita spesso di pensarti, anche perché qui tutto parla di te. La casa è piena di tue foto che ti ritraggono sempre con il tuo sorriso a trentadue denti. Mia mamma era tua sorella e perdere un fratello non è mai una cosa facile da superare, nonostante siano passati quasi otto anni i suoi occhi quando si parla di te sono pieni d’amore. Per non parlare poi di tua mamma, mia nonna. Penso che, per quel che le resti da vivere, non la supererà mai. Si porterà questo dolore fino alla fine dei suoi giorni. Il nonno invece credo che ti abbia raggiunto, vero? Se n’è andato a giugno dopo tante malattie, acciacchi e anche qualche malore. Non faceva in tempo a tornare a casa che già dovevamo riportarlo all’ospedale. L’unica consolazione che ha avuto è che, perlomeno, ha smesso di respirare nella vostra casa. Quella casa che racchiudeva tutti i ricordi possibili: gioie e dolori, tutto dentro quelle mura.

Da quel giorno mi hai aperto gli occhi. Un po’ macabra come cosa, ma è così. Dopo che te ne sei andato ho capito che, veramente, siamo attaccati ad un filo: il destino. E’ lui a decidere quando si viene e quando si va. Decide tutti i modi e i tempi della nostra vita. Orchestra tutto quanto. Con te, ad esempio, ha deciso che te ne dovessi andare proprio sopra la tua adorata moto, a quell’ora e in quel punto. Proprio come dice Ligabue in “Lettera a G”: Il destino ha la sua puntualità. Perché, purtroppo, l’unica cosa davvero puntuale è proprio la morte.

Strano vero? Sono proprio le cose che amiamo di più che ci fanno del male. Perché per te quella moto era molto di più: era il tuo ducati monster. La pulivi ogni sera, prima di cenare, con la stessa delicatezza con cui si accarezza una donna. La sfioravi delicatamente come se avessi avuto tra le mani un bimbo di pochi giorni. La moto era un po’ la metafora della tua vita: hai vissuto accelerando al massimo senza voltarti mai, soprattutto senza rimpiangere niente. Non hai mai avuto tempo di guardare lo specchietto retrovisore perché come mi dicevi sempre: “Se continui a guardare indietro, non riuscirai mai ad andare avanti.” E allora è quello che sto facendo. Guardo avanti ma ti porterò sempre dentro.

Tu che sorridevi sempre, ti sei portato via il nostro sorriso.

Lettera a G.

Lettera a G.


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