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Lettera a Roberto Vecchioni

Creato il 29 novembre 2011 da Spaceoddity
Caro Roberto,
non sono creativo come te, ma ti do ugualmente del tu perché in parte siamo colleghi. Sai?, tento anch'io di insegnare Italiano, Latino e Greco al liceo. E poi, insomma, la lettera la scrivo io e mi esprimo così al meglio che mi riesce.
Ti volevo scrivere da tempo, ma non ho mai avuto il coraggio. Non perché tu mi intimisca, anzi; né perché temessi di dire cose poco intelligenti, non penso di rivelarti il mondo neanche adesso. E non mi preoccupo di poterci riuscire domani e di avere sprecato un'occasione. Al massimo, ti riscrivo, non mi faccio problemi. Il punto è che parlandoti, rischio di dire troppo di me, per tutto il tempo che mi sei stato dentro, per tutte le volte che ho sentito
Canzoni e cicogne e per quello che ha significato in me. Ma ti dirò, non sono tutte le volte che le tue parole si sono presentate a me con l'urgenza dell'apnea a impensiermi, no: semmai sono tutte le occasioni che mi sono sfuggite di mano, che le ho dovute condividere, ridire con te, come per salvarmi, come nell'amore per liberarsi dal desiderio e non per completarsi.
Non so quanto ti faccia sapere che mi hai accompagnato quand'ero solo e quando ci volevo stare. Ma, poiché - come avrai capito - non sono qui per far complimenti, vale la pena ridirlo: sei stato con me quando mi sono perso, quando ho attraversato Berlino, quando ho imparato una lingua come il tedesco che mi ha ucciso e ridato la vita. Quando ho incontrato persone speciali e persone che hanno rischiato di farmi perdere ciò che di speciale c'è in me. Quando sono stato a guardare quel cielo e non ho incontrato persone che avrei dovuto avere accanto, quando ho detto quanto fossi diventato importante nel tuo modo di leggermi dentro e ho ricevuto in cambio espressioni imbarazzate. "Contento tu..."
Sto glissando su ciò che conta, per fortuna. Era un'altra cosa che temevo, di toccare il nocciolo di ciò che mi passa per la testa, ma sono diventato bravissimo a dissimulare e non ha importanza dire che lo sto facendo. Forse non mi leggerai mai e, se invece capitassi proprio qui, non so come né perché, ti accontenterai di questo insieme di parole che ti rivolgo: sono la codificazione verbale di uno sconosciuto che ha letto a destra e a sinistra quanto sia facile
non dirsi.
Lo ammetto: è proprio in questi casi che si riesce a farmi tacere su me stesso. Quando credi che io parli di me, perché un blog è uno spazio di libertà e bla bla bla, ecco che mi defilo sotto forma di parole. Non credo di aver acquisito il tuo stile, ma cos'è questo masticare di concetti? Ci sono volte che mi vieni in mente proprio tu. Non
Morte a Venezia, ma La bellezza, non la rivendicazione di me stesso e la mia debolezza, ma Neanche se piangi in cinese, non l'ispirazione e il ricordo che solo l'amore sanno darti, ma, di nuovo, ahinoi, Canzoni e cicogne.
Eppure, parlando con rispetto, non sei il mio artista preferito. Ascolto anche altro, altri generi, altre
cose. Ma tu e Gabriella Ferri (sì, lei, non so neanche se vi siate mai conosciuti, non so proprio niente di voi) a un certo punto siete entrati nella mia coscienza. Questo significa, Roberto, lei no, è chiaro, lei non può più, ma tu sì, tu hai un ruolo nella mia vita, in quei momenti là, cazzo, proprio in quelli, un po' io ti ascolto e, va da sé, di quando in quando mi deludi: e va bene così, anche se non ho il diritto di pretendere da te messaggi salvifici e comunque, tranquillo, non li cerco nelle tue canzoni.
A proposito, avrai notato da te che non ho citato, che so io,
Voglio una donna, che non mi piace proprio, o Samarcanda, che ha fatto storia, ma insomma, ce ne sono di migliori. Anche perché in quei momenti lì potrei togliermi le cuffie del lettore mp3 e magari fare osservazioni proprio cretine, ma io non è che abbia tanta voglia di parlare delle tue canzoni. Poi capita che la radio trasmetta ancora qualche volta Il tuo culo e il tuo cuore e devo tacere senza ragione apparente.
Questo perché non mi interessa l'artista Vecchioni, l'interlocutore ostinato di
Luci a San Siro, che - porca puttana - mi commuove volta dopo volta, né il padre smaliziato o deluso de La mia stanza, che adoro. Invece, mi chino a odorare un ristretto bouquet da dove emergono Le rose blu; tornerei anch'io all'alba per ammirare i tiri de L'uomo che si gioca il cielo a dadi; almeno io, oltre alla sua mamma, ascolto sempre Il violinista sul tetto; e non smetto di leggere la tua Poesia scritta in un bar, perché - Dio mio! - se ne conosco di persone che fanno soffrire e hanno sofferto così... E sono stato anch'io alla stazione per L'ultimo spettacolo, quando non si capisce bene perché tu stia lì, su quel marciapiedi in attesa che salga.
E già che ci siamo. Tu e io, oltre al nome e oltre a essere colleghi, per tua sventura, abbiamo almeno ancora una cosa in comune: tiriamo in ballo Dio ogni volta che possiamo. Non so che vi diciate davvero voi due quando strumenti e microfoni tacciono; e, tranquillo, non lo chiederò né a te, né a Lui. Però, ecco, per dirti che ti capisco. Sono arrivato fin qui e non son certo che non posterò ancora un paio di versi di Canzoni e cicogne su Facebook stasera, senza titolo e senza autore, con un solo amico che lo riconosce ogni volta e ogni volta clicca "mi piace", perché sa - quanto e magari anche più di me - cosa si dica lì.
Appunto. Non ti ho detto niente e intanto, nella mia playlist, sono arrivato a
La farfalla giapponese. Ovvio che non è un caso. Sono io che voglio finire qui, quando dici ho ancora voglia di credere / tra inverni e primavere / in questa faccia mia / che ride nel bicchiere. Quando passi di qui, anche se non penso di riuscire a dirti molto di più un bicchiere con te me lo farei volentieri.
Pagando, s'intende.
Con affetto e con stima, ti dico
grazie.
Roberto Oddo,
Palermo

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