Caro Roberto Saviano,
ho letto con interesse la tua recensione sul libro di Orsini. Avendo io compiuto 116 anni la settimana scorsa ho avuto la fortuna di conoscere e ascoltare, quei due mattacchioni di Gramsci e Turati. Durante il Biennio Rosso avevo 25 anni e, operaio, correvo di fabbrica in fabbrica per vedere il capo gobbo dei comunisti. E nei decenni a seguire, stemperate le mie giovanili caldane, seguivo Turati come ogni altro rappresentante di quella cosa strana che si chiamava allora movimento operaio – all’interno del quale stavano partiti, sindacati, associazioni, case del popolo e vari più o meno estremisti pezzi di società italiana. Che periodo! Mi ci hai fatto pensare e m’ha commosso – si sa, i vecchi hanno la lacrima facile e la nostalgia sempre in punta.
Ora però siamo nel 2012. Un numero che a quel tempo neppure si poteva immaginare associato ad un calendario. E leggere oggi quelle cose lì mi fa venire in testa una serie di questioni. Non si tratta, per carità, di sottigliezze accademiche: operaio sono e poco ne so, almeno tanto poco quanto te. Parli di una “sinistra” (oggi, nel 2012) che si divide in “riformista” e “rivoluzionaria” – cose che si dicevano allora, quando avevo 25 anni. Parole vecchie quanto me: tutte e tre dico, “sinistra”, “riformista”, “rivoluzionaria”. Dici che una delle due, quella targata “PCI” (che non significa computer, come i più pensano, ma Partito Comunista Italiano), ha “educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, a insultarli e irriderli”, con continui inviti “all’insulto personale” e istituendo una “pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo”. In particolare quel Gramsci, a tuo dire, rappresenta questa impresa. Mentre l’altro, Turati “conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici”. Ne fai discendere l’osservazione secondo la quale non è un caso se “fascisti prima e brigatisti poi avessero in odio soprattutto i riformisti”. E vedi in questa storia qualcosa di importante per l’oggi.
Adesso appunto non è tanto importante sottolineare che, a dispetto del lavoro del prof. Orsini, forse quei passaggi lì non si giocavano tanto su questioni di retorica. Che se proprio vogliamo, ben al di là dell’invito al cazzotto in faccia, comunisti e socialisti, occupavano fabbriche e terre, mettevano sottosopra l’Italia in modi rispetto ai quali i valsusini di oggi sono, loro sì, delle pecorelle. E neppure che su questi metodi s’è edificata la repubblica democratica italiana (dopo che quegli stessi son saliti sui monti abbracciando i fucili). E neppure è importante segnalarti che fascisti e comunisti non andavano a bere all’osteria, né le BR avevano in simpatia il PCI degli anni Ottanta. Tutto ciò è solo confusione di uno scolaretto cattivo che parla di cose che non sa, o non ricorda: e affastella tutto, non smette di parlare, davanti al professore che gli pone le domande all’interrogazione di fine quadrimeste. Ma appunto: ecco la questione.
La questione è: non siamo a scuola Saviano. Non devi parlare per forza. Nessuno ti interroga. Soprattutto è bene non scrivere di cose che non si sanno. Come è noto, non si può sapere tutto. A meno di non cadere in quel brutto vizio italiano per cui tutti parlano di tutto – tutti i “famosi”, beninteso. Ma, mi dirai, era un pretesto per sollevare una questione morale, un fatto di costume in un paese che il costume l’ha perduto soprattutto nella discussione pubblica. E hai ragione. Allora ti proporrei di ragionare su questo, lasciando i morti nella tomba e scartando persino la valutazione sulla discussione politica, che tanto è vuota. Che succede in Italia se un professore universitario, uno come Orsini, che si occupa di sociologia scrive una analisi sul tuo metodo d’indagine del fenomeno mafioso, e sul rapporto tra media e conoscenza prendendo ad esempio la tua produzione saggistica e (helas!) letteraria? Ci discuti? Lo tratti secondo la pedagogia del “tutte le opinioni meritano di essere rispettate”? Ti ricordi il libro Eroi di carta, del professor Dal Lago? Come hai risposto tu, e come hanno risposto i tuoi difensori d’ufficio? E come hanno risposto gli avvocati del tuo editore alle osservazioni di Umberto Santino e Giovanni Impastato sulle tue ricostruzioni della vicenda terribile del giovane Peppino, che eroe fu, per nulla “politicamente corretto” e neppure di carta? Altro che avversari: ‘ndranghetisti, camorristi, mafiosi o almeno fiancheggiatori li avete definiti. Così, Saviano, ti comporti tu. Dunque non è di morale e costume che, col tuo articolo, vuoi parlare.
E di cosa allora? D’una “sinistra” fuori dal parlamento fatta da “sopravvissuti dell’estremismo”? ma dove la vedi? Tra i valsusini? Tra le ragazze e i ragazzi dei centri sociali? Tra gli studenti dell’Onda e dei movimenti che difendono scuola e università? Tra gli operai aggrappati in cima a torri o tra i ferrovieri che occupano pezzi di stazione? Dove, esattamente? Di chi parli?
E viceversa: tu che con le parole lavori, mi diresti, per favore chi sono i riformisti di oggi? Cosa significa “fare le riforme” nella politica di oggi? Me lo spieghi perchè mi sfugge. Forse, se me lo spieghi, posso iniziare, vecchietto come sono, a trattarti civilmente come un nemico. Di avversari, non so cosa farmene.
Francamente,
Frank Pasquino.