Magazine Poesie
” Lettera a un pescatore “
All’inizio di questa mia lettera, breve ma di una eccezionale intensità, vi è l’amore profondo per il mare e la pesca, praticata ormai da alcuni anni. Una esperienza diretta e personale che almeno in estate mi ha portato a dedicare molto del tempo libero. Innanzitutto il mare, un universo di impegno e conoscenza da acquisire spesso a caro prezzo. Il personaggio che con semplicità sono io, già in parte segnato da questa autentica esperienza di pesca, che ha lasciato nel tempo tracce sul viso segnato dal sole dei mari calabri e sulle mani già segnate da macchie e da alcune cicatrici non molto profonde, provocate dall’incauto uso di ami sottilissimi. Parliamo prima del mare. Fino all’età di venti anni, non sapendo ancora nuotare, mi divertivo con gli amici ad emulare un certo Mark Spitz, campione olimpico, poggiandomi con la pancia su uno scoglio a filo d’acqua e muovendo le braccia e le gambe, nel goffo tentativo di somigliare ad un possibile nuotatore. Poi lunghe passeggiate sulla spiaggia di Ginosa, dove un fondale marino bassissimo ti portava molto in là, al largo. Poi, ancora altri tentativi di nuotare con le mani aggrappate ad un salvagente o ad un canotto. Fu proprio uno di questi che un giorno, senza cercarlo, diventai anch’io come tanti altri e come la mia mamma, un eroe. Proprio a Ginosa, forte della compagnia di un canotto, mi allontanai al largo fin dove si toccava il fondo marino. Ad un tratto fui attratto dalle grida che provenivano più in là al largo in un punto dove sicuramente non si toccava. Mi girai e notai una coppia di fidanzatini in grosse difficoltà. La ragazza urlava e a tratti scompariva sott’acqua. Il giovanotto la prendeva da sotto e con forza la spingeva fuori dall’acqua. Ma non riusciva a tenerla e così lei continuava a sprofondare sempre di più. Mi girai intorno, cercando qualcuno capace di nuotare che potesse darmi una mano.Niente tutti lontani, tutti in spiaggia, non c’era tempo da perdere, bisognava intervenire subito. La distanza che ci divideva era notevole ed io non sapendo nuotare, non sapevo come intervenire. Quei due poveracci continuavanoad urlare ed entrambi scendevano sempre più giù e sempre più frequentemente. Risalivano, ma era chiaro che da solo ormai stremato, non riusciva più a tenere la ragazza in quel modo fuori dall’acqua. La situazione rischiava di peggiorare e fu allora che non potendo intervenire di persona, anche se la distanza era tanta, raccolsi tutte le mie forze e con l’acqua che mi lambiva la bocca, spinsi quel piccolo canotto verso quei poveretti ormai disperati. L’acqua calma e un leggero vento che arrivava alle spalle facilitò l’operazione. I due immediatamente si aggrapparono a quel canotto mandato dal cielo. Nel frattempo mi voltai e urlai verso gli amici di accorrere. Arrivarono da tutte le parti, riuscendo a spingere a riva i due malcapitati. Ricordo che la ragazza non mollò per niente quel canotto fino a quando non sentì la sabbia calda e asciutta sotto i piedi.