Febbraio 2013
Patrizia&Giuditta 2 voci per 1 libro è una rubrica che nasce dall’incontro di due persone distanti per formazione ed esperienze di vita, ma unite da una grande passione per i libri e la letteratura. Due donne, Giuditta e io, che si sono conosciute leggendo l’una il blog dell’altra senza essersi mai incontrate di persona (ma intenzionate a farlo presto), due “sentire” spesso discordanti ma sempre rispettosi e aperti al confronto. Da questa complicità è nata, tra un tweet e l’altro, l’idea della rubrica. Un luogo in cui confrontarsi su un libro diverso ogni mese in modo divertente e scanzonato, senza il rigore di una recensione, ma con l’attenzione ai dettagli. Una sorta di gioco (liberamente tratto dalle famose interviste della trasmissione “Le Iene”) che vi permetterà di conoscere nuovi romanzi e sorridere un po’. Per assecondare i gusti di tutti i lettori, abbiamo deciso di seguire uno schema che prevede l’alternarsi di un autore italiano, uno spagnolo e uno di qualsiasi altra nazionalità. Questo numero di febbraio ha per ospite il breve romanzo Lettera al figlio che non avrò di Linda Lê, autrice vietnamita ma francese d’adozione (e formazione) che con questo breve romanzo, pubblicato in Italia da Barbès Editore, nel 2011 ha ottenuto il prestigioso premio Renaudot.
Lettera al figlio che non avrò
Linda Lê
Barbès Editore
1. Dai un voto alla copertina e spiegalo
Voto:5. Non me ne vogliano Picasso e il disegnatore Roberto Mastai, ma trovo l’immagine di copertina, che dovrebbe rappresentare la deformità di una donna che non accetta di diventare madre, semplicemente brutta. Il non conformismo non deve essere necessariamente repellente. Piacevole al tatto ed estremamente raffinato, invece, il tipo di carta utilizzato per la copertina. Voto:Voto: 8. L’immagine picassiana di una donna rende con incisività la deformità e difformità della visione della scrittrice sulla maternità. Pregevole la qualità della carta della copertina, con piccole solcature che la rendono particolarmente elegante. Fondo scuro, lettering giocato sul bianco e il rosso, dalle forme semplici ma raffinate. Forse non sarebbe guastato un colore di fondo più brillante.
2. L’incipit è…
Fulmineo nella sua estrema chiarezza. Tu, il figlio che non avrò … ha un’aggressità e una perentorietà che colpisce immediatamente.
3. Due aggettivi per la trama
Lucida e sterile. Razionale ed egotica.
4. Due aggettivi per lo stile
Artificioso, rileccato (per usare un termine scelto dal traduttore Tommaso Gurrieri). Lucido e introspettivo
5. La frase più bella
In due parole, ti avremmo soltanto chiesto di non montarti la testa ma di essere un’eccezione…
L’autrice si rivolge direttamente al bambino che non ha intenzione di concepire e gli spiega come lei e il padre lo avrebbero cresciuto se fosse nato. Un modo brillante per ironizzare sul desiderio più o meno inconscio di ogni genitore di vedere i propri figli eccellere nella vita, pur restando persone umili e di sani valori.
Non era rimorso, ma un’indefinibile impressione di mutilazione, come se mi avessero amputato un arto.
Verso la fine della Lettera la scrittrice riesce a mostrarci il volto più profondo e anche un sentimento che supera la razionalità di certe posizioni ideologiche.
6. La frase più brutta
Il timore della gravidanza e il senso di colpa per non sentire alcun istinto materno sconvolgono la mente della scrittrice al punto di provocarle orribili allucinazioni che la obbligheranno a farsi ricoverare in un istituto psichiatrico. La descrizioni delle sue visioni è agghiacciante:
Verdastra, le labbra screpolate, il corpo scosso da spasmodiche contrazioni, erravo nelle strade e dappertutto incontravo i lupi. Spaventosi marmocchi si prendevano gioco di me. La Senna portava con sé dei feti espulsi prima del termine. Le chiatte trasportavano ostetrici di acefali. Donne in gestazione avevano emorragie, perdevano tutto il loro sangue.
Delirante, mi sentivo la preda di un’organizzazione tentacolare, di poliziotti incaricati di rinchiundermi per adescamento e parassitismo, di un esercito di fantasmi che mi chiedevano perchè non accettassi di essere fecondata, di giudici che indagavano su di me, la falsificatrice, avevo atroci allucinazioni, sentivo delle voci che mi ordinavano di uccidermi, arrancavo dagli amici e gli dicevo di stare in guardia perchè i morti sarebbero usciti dalle tombe per soggiogarli. Verdastra, le labbra screpolate, il corpo scosso da spasmodiche contrazioni, erravo nelle strade e dappertutto incontravo i lupi. Spaventosi marmocchi si prendevano gioco di me. La Senna portava con sé feti espulsi prima del termine. Le chiatte trasportavano ostetrici di acefali. Donne in gestazione avevano emorragie, perdevano tutto il loro sangue.
La mente della scrittrice ha avuto un cedimento che la porterà in una clinica psichiatrica dopo un tentativo di suicidio. Il dolore e la disperazione sono evidenti e scottanti nel brano che ho proposto.
7. Il personaggio più riuscito
S. Il compagno della scrittrice che da lei desiderava un figlio e che per un certo tempo ha provato a farle immaginare una vita di famiglia, per poi arrendersi e lasciarla. Gli argomenti che S. utilizza per indurla alla maternità sono talvolta stereotipati ed egocentrici, altri infantili, ma sempre molto realistici. Il figlio che non avrà, che è parte integrante della scrittrice, pur essendo immateriale, non una fantasia ma un essere dotato di vita. Lei stessa confessa con profonda capacità introspettiva: “tu attivi in me il desiderio di cambiare, di esplorare dei territori nuovi, di approfondire le mie analisi eterodosse.”
8. Il personaggio meno azzeccato
La madre della scrittrice. Una donna così autoritaria e abietta da risultare odiosa e poco credibile. l compagno S. che dovrebbe convincere la scrittrice alla maternità. Tutte le sue riflessioni e le sue posizioni adombrano il senso comune sull’accudimento dei figli in una visione che è concentrata e avvitata sui genitori e non si apre all’amore per la vita, alla reciprocità, ma si chiude in un egoismo che anche quando prevede l’altro, compagna o figlio che sia, lo fa in un’ottica molto parziale ed egotica.
9 La fine è…
Scontata ma più “umana”. Il rifiuto alla maternità viene argomentato dalla scrittrice in modo un po’ meno cerebrale, ma ciò non mitiga la sensazione di mestizia che avvolge l’intera narrazione. La parte migliore e più riuscita del libro. La scrittrice libera finalmente se stessa e il suo Io più profondo, senza più timore di svelarsi nelle sue contraddizioni e nell’intrigo dei suoi sentimenti. Nel resto del libro, invece, si evince una rigidità di orientamento e una perentorietà di pensiero che affonda sì le sue radici in un vissuto personale complesso e faticoso e in un rapporto difficile con la propria madre, ma che nelle argomentazioni appare freddo e compassato, fin troppo logico e ragionato, poco intimo e vissuto.
10. A chi lo consiglieresti?
Francamente a nessuno. Nemmeno a chi condivide le scelte di vita della scrittrice. Ci sono molti motivi per cui una donna può legittimamente decidere di non volere un figlio. E tutti sono rispettabili. Ma da qui a scrivere 78 pagine di “romanzo” giustificando la propria decisione con il desiderio di non perdere di vista il proprio ombelico (di scrittrice egocentrica) mi sembra esagerato. La scrittrice dedica la Lettera “a tutte coloro che si sono dispensate dal conformarsi alle leggi della natura”, forse il pubblico più adatto a trovare valide le posizioni proposte. Io che come donna ho fatto una scelta diversa da Linda Lê confesso di essere rimasta delusa da un andamento discorsivo che è molto concentrato su se stessa e limitato alla propria individualità. La figura della scrittrice è, a mio avviso, troppo complessa e complicata, sfociando anche in un disagio psicologico e patologico, per poter assumere una valenza generale e universale, in cui sia possibile specchiarsi, pur nella diversità di posizioni e di scelte.
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