ABBIAMO BISOGNO AL PIÙ PRESTO DI UN UNICO PARTITO DELLA SINISTRA.
Abbiamo bisogno di un unico partito della sinistra, abbiamo bisogno di un programma credibile che tocchi la testa, i sentimenti, le condizioni materiali della gente del nostro paese, abbiamo bisogno di democrazia. Abbiamo bisogno di SINISTRA. Abbiamo bisogno di sinistra con “un programma” che abbia un’ anima alternativa, per far partecipare le forze progressiste, i giovani ed i movimenti del nostro paese. Che punti a riequilibrare redditi sempre più divaricati fra ceti sociali ed aree del paese. Che assicuri servizi universali accessibili e di alta qualità. Che sposti grandi risorse verso il lavoro, lo sviluppo sostenibile, la qualificazione del welfare, la scuola, la cultura, la ricerca. Che affronti con forza i vecchi e i nuovi problemi della moralità pubblica. Va costruito un rapporto tra la sinistra e quella generazione politica che ha dato voce a una speranza di rinnovamento iniziata nel 1968 e che ha attraversato con alti e bassi tutti i decenni successivi con una pluralità di movimenti che i progressisti dell’intero occidente ci hanno invidiato.
E’ sempre più urgente concentrare il lavoro sull’elaborazione di un programma/progetto che sappia parlare a movimenti e forze sociali. Dopo il ritorno della destra al governo del paese e poi dei tecnici bisogna pur chiedersi quanto reggerà un sistema politico che sul lato destro vede crescere il sovversivismo della maggioranza parlamentare, attraverso leggi che hanno la dichiarata volontà di cambiare la costituzione, mentre al centro il PD sta arrancando; dal nostro lato stenta ad emergere una nuova unione di sinistra ed un partito nuovo che molti di noi auspicano da oltre 15 anni. Possibile che i leader della sinistra non riescano a comprendere la necessità di sconfiggere le pratiche del Washington Consensus e della Shock Economy? In assenza del minimo requisito dell’unità a sinistra, la shock economy continua il suo percorso. Ora si cerca di cancellare la memoria, si attaccano gli anelli più deboli per dare poi il colpo mortale agli ultimi diritti rimasti.
Quando parliamo della debolezza del Paese è anche di noi che dobbiamo parlare. A ben vedere sta qui la risposta più forte a chi – giustamente – si preoccupa del futuro della sinistra e del suo ruolo storico. È dalla novità della situazione storica che bisogna partire, essendo essa che c’impone la necessità (e al tempo stesso ci offre l’opportunità) di assumere una più alta responsabilità verso il paese. La sinistra e non il centro-sinistra.
Il nodo è questo. Da un lato è tempo di affermare senza ambiguità e retro-pensieri che tutta la situazione richiede, dopo i risultati elettorali e l’irruzione del governo tecnico, del “tutto mercato, del tutto globalizzato, dell’abolizione dei diritti, della Spending review , in pratica, il modo di rendere più poveri i cittadini a favore di pochi burocrati e capitalisti ” non meno, ma più potere alla politica e quindi non meno ma più forti strutture ed idee capaci, di coinvolgere i cittadini nella vita pubblica e di restituire a loro diritti uguali e possibilità di organizzarsi, di decidere, di contare.
Questo spazio esiste tutto intero ed è ovvio che una lunga storia di divisioni feroci non si chiude semplicemente chiedendo gli uni agli altri di “fare solo passi indietro”.
Dovremmo chiedere a tutti noi di fare quel grande passo avanti che consiste nel dare risposta a una “crisi politica italiana nella grande crisi generale”, sulla cui natura e gravità non è vero che siamo tutti d’accordo.
Questo è il punto. Noi siamo di fronte ad un nodo storico. Perché si tratta di una crisi della sinistra inedita la quale, quando è stata al governo, non ha fatto le riforme promesse; una crisi che non si misura solo con i numeri dei sondaggi e che è difficilmente leggibile con le culture di cui disponiamo: né con le vecchie culture “classiste”, ma nemmeno con la vulgata riformista appresa nelle università anglosassoni o alla Bocconi…
LA LOTTA DI CLASSE C’È, L’ABBIAMO PERSA, L’HA VINTA IL CAPITALISMO E LA SCUOLA DI CHICAGO. MA I VINCITORI HANNO PERSO PER STRADA LA LORO EGEMONIA TEORICA. SI E’ APERT UNA NUOVA FASE DIALETTICA.
Bisognerebbe riflettere piuttosto sulla storia d’Italia e domandarsi a che punto è arrivato il distacco da un’idea nazionale di quella intellettualità di massa (politici compresi) che dovrebbe rappresentare “l’armatura flessibile” del Paese e il suo cemento.
Questa è la crisi che sta anche in casa nostra. Essa riguarda il modo d’essere complessivo del Paese, come dimostra l’estrema difficoltà perfino a pensare il nostro passato e quindi l’incerta idea che gli italiani hanno di sé e delle ragioni del loro stare insieme. In più sono venute meno le vecchie basi strutturali (Stato centralistico, economia mista, banca pubblica, il vecchio compromesso tra il Nord che produce e il Sud che consuma, ma allo stesso tempo che fornisce al Nord risparmio – la banca del Sud è un nuovo attacco al risparmio della gente -, mano d’opera a basso costo e un grande mercato protetto) e vengono a mancare anche le vecchie basi geo-politiche e a mutare quelle geo-economiche, con il parallelo riprendere vigore di una nuova emigrazione di massa – non solo dei cervelli – in corrispondenza dell’arrivo di milioni di persone dal sud del mondo e dall’est europeo.
Di fatto sono state cancellate le condizioni storiche grazie alle quali ci siamo sviluppati nel dopoguerra diventando un Paese “ricco” e una “potenza” mondiale.
Il Paese si è seduto ed è così difficile difendere ciò che resta del nostro apparato industriale. Non si comprende come la politica abbia potuto regalare a Marchionne la FIAT. Non si capisce più che posto abbiamo nella divisione internazionale del lavoro (o meglio lo comprendiamo dai dati della disoccupazione), dato che ci siamo infilati in un vicolo cieco: non siamo più i grandi produttori di beni di consumo, cioè delle cose che fornivamo noi a basso costo al vecchio mondo industriale e abbiamo perso l’autobus delle nuove tecnologie per reggere alle sfide di un mondo nuovo, allargato, dove le merci a basso costo si producono altrove. Si batte la via della globalizzazione economica, nuova forma di imperialismo, con l’esportazione della globalizzazione dei diritti e non della guerra. La sinistra è chiamata a questa responsabilità, non solo in Italia. È evidente che, con tutto il rispetto per le ricette certamente utili degli economisti, senza un grande disegno politico non si esce da questo vicolo cieco.
Il declino non è solo un fatto economico. È l’impossibilità per una media potenza di scommettere sul futuro se non ha una politica estera, se – grazie al centro destra – non sa se la costruzione europea è il suo destino oppure se l’Italia sta in Europa in quanto vassallo degli Stati Uniti e oggi suddito della Germania (e quindi col compito di fare gli ascari di turno).
Il declino, è la rinuncia delle giovani coppie a fare figli perché i servizi sociali sono smantellati, è lo scarso livello di valorizzazione del capitale umano perché la strada imboccata è quella dell’evasione fiscale, del lavoro precario e dell’arte di arrangiarsi. L’ultima trovata di Monti non è molto diversa da quella di Tremonti. Ne costituisce anzi una continuazione e una razionalizzazione.
L’emergenza: il lavoro e la sicurezza sul lavoro. Alla fine di quest’anno conteremo circa 5 milioni di disoccupati, quante saranno le famiglie povere, quanti saranno i lavoratori che subiranno incidenti sul posto di lavoro e quanti saranno i morti? Questa è la crisi italiana.
BASTA CON L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
MARIO MONTI, l’uomo della provvidenza. E’ vero che un politico guarda alle prossime elezioni e uno statista alle prossime generazioni, Monti invece guarda banche, alla troika (BCE-FMI-UE che commissaria i paesi indebitati e li costringe ad una cura drastica a base di licenziamenti, privatizzazioni e tagli), al Washington Consensum, è l’autore finale della Shock Economy in Italia e con questo che non sarà certo ricordato come uno statista. Invece di guardare al paese, è più interessato alle tre agenzie private di rating Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch che rappresentano le bussole della mala finanza: orientano flussi di migliaia di miliardi da parte degli investitori e possono così fare vivere o morire aziende e nazioni. Finora però hanno sbagliato spesso (vedi per esempio i casi clamorosi di Enron e Lehman Brothers considerati molto affidabili poco prima di fallire) e di fatto alimentano la speculazione contro gli stati europei più in difficoltà, con il rischio crescente di farli fallire. Per avere una bussola più affidabile non sarebbe male che in Europa lo European Securities and Markets Authority, ESMA, l’organismo europeo che vigila sul sistema finanziario, crei un’autorità pubblica indipendente per sovraintendere e certificare autonomamente le attività di rating sui titoli di debito.
La buona politica è tutt’altra cosa rispetto al rigore iniquo e inflattivo messo in campo dai tecnici; con le loro ciniche riforme hanno tolto il futuro ai giovani e in cambio non sono neppure riusciti a far quadrare i conti: nuove elites che non pagheranno il disastro che hanno creato. Ma dove è l ‘opposizione?
E’ possibile che in questo paese non paghi mai nessuno? Ammesso che il problema sia il bilancio pubblico, cosa hanno fatto i 1.000 parlamentari che per 20 anni non hanno controllato il bilancio dello stato, ma sono stati molto attenti ad incrementare il loro salario? Sarebbe logico che siano inquisiti per aver attentato all’integrità del paese, per aver eseguito il suo fallimento.
Invece li ritroviamo a sostenere politiche che ora tartassano i deboli e fanno gli interessi dei più forti, in continuità con il quindicennio berlusconiano ; contro le apparenze sostenute dai media, in realtà il Governo è una nave che affonda ed i partiti che lo sostengono stanno scappando verso le elezioni anticipate, per eleggere di nuovo … quelli che hanno già affondato lo stato.
MONTI ha alimentato spread, recessione, disoccupazione e debito pubblico senza dare prospettive di crescita: i dati di Bankitalia e Unioncamere, che descrivono una società sempre più povera e precaria, sono uno schiaffo alle riforme targate governo tecnico.
Votare subito con una legge elettorale che rispetti il referendum sarebbe l’unico rimedio possibile per uscire dalla crisi; andare al voto questo autunno con nuovi candidati non compromessi con il passato.
Nell’ 82 il debito pubblico era al 60% oggi sfioriamo il 130% e lo spread naviga sempre intorno a quota 500.
Nel 2012 il 34% dei giovani è disoccupato i dati d oggi dall’ISTAT aggiunge che ci sono 2 milioni e 880mila nuovi disoccupati. Siamo all’11%, senza contare quelli che il lavoro non lo cercano più e sono esodati dalle statistiche.
È per il disperato bisogno del Paese di avere una guida e per la mancanza di un’idea nazionale alternativa, che è stata demandata ai tecnici la gestione del paese esautorando di fatto i cittadini della propria sovranità.
A cosa servono, oggi, in questo scenario, i circa 1000 parlamentari? Pensano di ridurre il peso del costo del lavoro per recuperare gli sprechi, di chi ? Non pensano però di abolire gli enti inutili, i privilegi della casta tutta (il compenso di un giorno per molti ministri è superiore al salario e/o pensione – media – di un operaio/impiegato; allo stesso tempo vengono erogate dall’INPS, pensioni che arrivano alla soglia di € 40mila euro al mese) . Ma allora di cosa stiamo parlando?
Di qui dovrebbe partire la riflessione di tutta la sinistra italiana. Non dalle formule ma dalla necessità di contribuire alla costruzione di una forza che per la sua consistenza e la sua credibilità sia in grado di sciogliere la stridente contraddizione tra un grande patrimonio sociale e culturale, fatto di risorse e di valori quali solo poche regioni del mondo possiedono e una tale mancanza di fiducia nel futuro per cui il Paese si è seduto, non rischia, non intraprende, non fa figli, dissipando così un immenso patrimonio di lavoro e di capacità imprenditoriali ed il sacrificio delle passate generazione.
Per fare questo noi non dobbiamo buttare a mare quel grande patrimonio politico e quello straordinario solco morale e intellettuale grazie al quale la migliore sinistra del paese ha segnato la storia d’Italia e d’Europa. È davvero stupido pensare di sostituire tutto questo con una sorta di grande lista civica o di governi tecnici. Sarebbe però anche assurdo negare la necessità e l’urgenza di “andare oltre” i confini del socialismo e del riformismo novecentesco, anche se questo non può sfociare in conformismo o in radicalismo fine a se stesso.
E perciò è giunto il tempo di dare vita al nuovo partito della sinistra – riunificando le attuali formazioni della sinistra italiana e aprendosi alle nuove culture e ai nuovi movimenti, per usufruire di una positiva contaminazione culturale e dar vita a una grande alleanza strategica. E’ tempo di chiamare alla lotta in Italia e in Europa le grandi e le nuove culture critiche: la nostra, quella socialdemocratica, quella cristiana, quella nata intorno alle idee di compatibilità sociale, ambientale, dei diritti umani.
Il dialogo si fa a questa altezza. Non si fa al ribasso, ma rendendo esplicita la posta in gioco: Il futuro di intere generazioni.
ABBIAMO BISOGNO DI DEMOCRAZIA.
Che cosa resta della nostra democrazia? Qualsiasi manuale di diritto costituzionale c’insegna che la democrazia è “un’organizzazione interna dello stato secondo cui il potere politico emana dal popolo ed è esercitato dal popolo – un’organizzazione che consente al popolo governato di governare a sua volta per il tramite dei propri rappresentanti eletti”. (oggi in Italia governa la troica BCE, FMI, UE e il Washington Consensus)
Tra il dire (o meglio tra quanto è scritto nelle costituzioni) e il fare, c’è di mezzo il mare. In altri termini: il fatto che la democrazia possa essere definita con grande precisione non significa purtroppo che funzioni così come previsto, nella realtà. Accade oggi che stiamo sostituendo la vecchia burocrazia inefficacie e corrotta della prima/seconda/terza repubblica con il governo dei tecnici che rappresenta il potere forte delle banche – una nuova burocrazia di amministratori zelanti e rigidi -; parallelamente, nei corpi intermedi della rappresentanza, i partiti, assistiamo alla proliferazione di liste personali, nuovi culti della personalità, roba tardo ‘800, altro che “innovazione”; è solo “conservazione” o meglio ancora “smantellamento” e ritorno a società neofeudali.
Un rapido excursus attraverso la storia delle idee politiche ci porta a quattro riflessioni spesso sbrigativamente accantonate, con la scusa che il mondo cambia. Perché le istanze del potere politico tentano di distogliere la nostra attenzione da un fatto evidente:
- all’interno stesso del meccanismo elettorale, si trovano in conflitto una scelta politica rappresentata dal voto e un’abdicazione civica; tutti vogliono cambiare la legge, ma, di fatto, il cittadino non conta più niente, siamo ad un passo dalle elezioni del 2013 ed ancora certi partiti fanno come i ladri di Pisa;
- non è forse vero che, nel preciso momento in cui la scheda è introdotta nell’urna, l’elettore perde e trasferisce in mani terze, senza alcuna contropartita, se non le promesse ascoltate durante la campagna elettorale , quella parte di potere politico che possedeva fino allora in quanto membro della comunità di cittadini ?
- non è forse vero che quando il governo di questi “eletti” è in vigore, in realtà poi tutti i loro errori ricadono sulle spalle degli elettore e nessuno di loro paga?
- Restituire ai cittadini la democrazia e la partecipazioni alle decisioni, deve essere la base del programma della sinistra; restituire il controllo del bilancio pubblico attraverso pratiche di bilancio-partecipato, partendo dai comuni, fino ad arrivare a quello centrale con il ricorso a pratiche referendarie.
Ha ragione il premio Nobel per l’economia J. Stiglitz nel definire il problema, (“The roaring fineties”, New York, 2003). “ Nessuna innovazione della vita politica democratica è possibile se gli interessi privati dei grandi gruppi sono più importanti degli interessi della collettività, ovvero se di fronte agli interessi prevalenti di alcuni, i cittadini cessano di essere uguali”. Motivo di più per esaminare che cosa sia la nostra democrazia, quale sia la sua utilità, prima di pretendere – ossessione della nostra epoca – di renderla obbligatoria e universale a chi adotta altri sistemi.
Pensiamo alle barbarie ed alle guerre degli ultimi decenni: prezzi umani e finanziari immani sono stati necessari per destituire gli ex amici dell’occidente quali i Bin Landen , Saddam, Gheddafi e oggi Assad , ecc ; agli omicidi più scaltri sono bastati due proiettili per eliminare, John e Robert Kennedy, Martin Luther King, due soli aerei per il crimine delle torri gemelle di NY.
Si è preferito utilizzare Il vecchio arsenale di fuoco degli USA e dell’Europa, nella ex Jugoslavia, in Iraq in Afghanistan, in Libia, oggi in Siria; esportando la democrazia decimando la popolazione civile inerme, quanti morti contiamo e conteremo come prezzo dell’esportazione di una democrazia inesistente?
Oggi nel mondo ci sono circa 70 guerre locali gestite indirettamente dal mondo occidentale, intente ad esportare le proprie armi, inscatolate nel packaging della “democrazia” del libero mercato.
Questa caricatura di democrazia che come missionari di una nuova religione cerchiamo d’imporre al resto del mondo, non è altro che la democrazia/dittatura del capitale, la nuova/antica ideologia che continua ad imperversare nel mondo. Allora, le ideologie di destra non sono scomparse?..
Qualcuno ci dirà: ma le democrazie occidentali non sono basate sul censo e sul colore della pelle, e all’interno dell’urna il voto del cittadino ricco o di pelle chiara conta esattamente quanto quello del cittadino povero o di pelle più scura. A costo di raffreddare questi entusiasmi, diremo che la realtà brutale e profonda del mondo in cui viviamo rendono ridicolo questo quadro idilliaco, e che, noi stessi, il “cuore democratico” del mondo, finiremo per ritrovarci con un corpo autoritario dissimulato sotto i più begli ornamenti della tecnocrazia; noi in Italia siamo già sulla buona strada, la prova è la natura del cosiddetto “governo tecnico”.
E così, il diritto di voto, espressione di una volontà politica universale, si è già tradotto in un atto di rinunzia a quella stessa volontà, in quanto l’elettore la delega candidati che in stragrande maggioranza hanno già rinunziato alla loro funzione di rappresentanza senza vincolo di mandato, nel momento in cui hanno accettato per se stessi e anche per il futuro, una lunga serie di vincoli esterni che definiscono candidamente “europei” (pareggio di bilancio, fiscal compact, ecc., sempre rigorosamente principi del Washington Consensus, cioè dell’ideologia che dice che lo Stato è il problema).
Per una parte consistente e disorientata della popolazione, l’atto del votare si è trasformato in una forma di rinunzia temporanea ad un’azione politica personale, tenuta in sordina sino alle elezioni successive, momento in cui i meccanismi spuri della delega torneranno al punto di partenza, per riattivare lo stesso processo.
Ecco bisognerebbe poter rivoltare questo circolo vizioso. Vorremmo che la delega sia restituita ad uomini e donne. Questo deve essere uno dei punti della nostra battaglia e del nostro progetto politico. Questa rinuncia alla politica e all’impegno diretto costituisce, per la minoranza eletta, il primo passo di un meccanismo che spesso autorizza a perseguire obiettivi che non hanno nulla di democratico e che possono costituire un’autentica offesa agli stessi cittadini e alla legge, in primis alla Costituzione.
Già oggi la delega è scippata: in linea di principio, a nessuno verrebbe in mente di eleggere come propri rappresentanti nelle istituzioni degli individui corrotti, invece tutti sappiamo per triste esperienza che le alte sfere del potere a livello sia nazionale che internazionale, talvolta sono occupate da criminali o dai loro mandatari. Con le ultime elezione questo è stato evidentissimo in Italia: inquisiti, condannati, nuovi e vecchi Piduisti, grandi elettori delle mafie, hanno occupato il Parlamento e hanno generato e sorreggono il governo dei tecnici, i rappresentanti del grande capitale.
L’esperienza conferma che una democrazia politica che non si basa su una democrazia economica e culturale è di ben scarsa utilità. Disprezzata e relegata nel dimenticatoio delle formule arcaiche, l’idea di una democrazia economica ha ceduto il posto ad un mercato trionfante fino all’oscenità che ha portato alla crisi mondiale dell’ economia. Il capitale ha fallito, ha fallito la globalizzazione ed hanno pagato i lavoratori, i pensionati, i giovani.
E all’idea di una democrazia e pluralità culturale si è sostituita quella, oscena, di una massificazione industriale delle culture, uno pseudo miscuglio di culture e di classe di cui ci si serve per mascherare il predominio di una sola di esse. Dalla fine della storia (fine del socialismo reale), come l’aveva ipotizzata Fukuijama, ci hanno fatto credere di aver fatto dei passi avanti, ma in realtà stiamo regredendo ad uno stadio di sudditanza civile, mai sperimentato.
Una democrazia autentica, che come un sole inondasse della sua luce tutti i cittadini, dovrebbe cominciare da quello che abbiamo tutti sottomano, cioè il paese in cui nasciamo, la società in cui viviamo, la strada in cui abitiamo, i cittadini che incontriamo ed i loro bisogni. Se questa condizione non viene rispettata – e non lo è – vengono inficiati tutti i ragionamenti precedenti, vale a dire il fondamento teorico e il funzionamento empirico del sistema e della democrazia.
Oggi in Italia, partiamo da un dato agghiacciante e semplice: dal 2003, tre milioni di persone “avevano difficoltà ad acquistare cibo necessario” ed il numero è cresciuto di anno in anno. In Italia, non in Africa; il Ministro Passera ci ha raccontato che oggi, circa 8 milioni di famiglie sono povere, il 35% della popolazione. 8 milioni di persone sono al di sotto dei livelli della dignitosa sopravvivenza minima. Un bambino su 4 (25%) vive nell’indigenza.
In Italia, paese membro del ricco Occidente, della saggia Europa, dei fantastici Paesi più industrializzati, solo la metà della popolazione ha il necessario. Quale democrazia per i nuovi emarginati ?..
Parliamoci chiaro: i cittadini non hanno eletto i loro governi perché questi li “ offrano “ come moderni sacrifici, al mercato.
Nel tempo della globalizzazione liberista, il mercato è lo strumento effettivo dell’unico potere degno di tale nome, il potere economico e finanziario. Qui non vi è democrazia, questo luogo dello scambio e della perdizione non è stato eletto dal popolo, non è uno spazio gestito dal popolo o dai popoli, non si prefigge alcuna finalità di bene del popolo. Impossibile negare l’evidenza: la massa di poveri chiamata a votare non è mai chiamata a governare, ma solo a soccombere nella guerra quotidiana, dell’inflazione, della disoccupazione, del lavoro precario; combatte giorno per giorno una guerra disperata per arrivare alla fine del mese, per sopravvivere.
Se si accetta questa architettura sistemica, anche nell’ipotesi di un governo formato dai delegati maggioritari dei cittadini/poveri, essi non disporrebbero dei mezzi necessari a modificare lo stato di cose vigenti: se non si richiama la necessità di una modifica radicale del funzionamento di questo organismo di aggressione alla vita, anche il migliore risultato elettorale si traduce in una paralisi democratica.
La pretesa democrazia occidentale è entrata in una fase di trasformazione retrograda che non sembra più in grado di arrestarsi e le cui conseguenze prevedibili saranno la sua stessa negazione. Non c’è alcun bisogno che qualcuno si assuma la responsabilità di liquidarla, è essa stessa a suicidarsi ogni giorno che passa.
CHE FARE? COME RIFORMARE LA DEMOCRAZIA? E’ QUESTA LA MISSION DELLA SINISTRA.
Sappiamo che “riformare”, come ha scritto con tanta eloquenza l’autore del Gattopardo , molto spesso si è tradotto, nella storia, nel cambiare quello che è necessario affinché nulla effettivamente cambi.
Ci domandiamo: è questa la funzione vera della deriva riformista della sinistra italiana? Rinnovarla? A quale modello per il futuro dobbiamo guardare? O, a quale epoca del passato sufficientemente democratico si vorrebbe ritornare, o da cui partire per ricostruire con i necessari materiali, una effettiva democrazia ?
Allora diciamo: rimettiamola in discussione. Se infatti non troviamo il modo di re-inventarla, non si perderà soltanto il concetto di democrazia, ma soprattutto la speranza di vedere i diritti umani rispettati su questo pianeta. Sarebbe questo il fallimento più clamoroso del nostro tempo, la mancata assunzione di responsabilità, il segnale di un tradimento che segnerebbe per sempre il futuro dei popoli italiano e di quelli europei.
Ripartiamo dal quotidiano, dai bisogni delle persone e dei cittadini. Le primarie della sinistra – in tutte le occasioni elettorali – possono essere una buona occasione per discutere i programmi, per restituire al nostro paese la democrazia, la dignità intellettuale e morale e, l’energia per uscire dalla spirale negativa che ha portato al degrado tutte le istituzioni culturali e politiche e l’esclusione dal parlamento della vecchia sinistra.
Ma il nodo del contendere è la differenza tra una visione minimalista che prende atto e accetta lo scenario vigente e il ritorno, invece, alla grande politica in cui la posta in gioco è sempre il problema del senso della vita collettiva e individuale. Queste parole possono anche suscitare l”ironia di quanti praticano il disincanto come terapia d’addomesticamento delle passioni sociali, ma siamo convinti che senza l’investimento affettivo sulla prospettiva di un futuro diverso, una formazione sociale diventi prima un condominio rissoso e poi una clinica psichiatrica, d’individui chiusi in una solitudine disperata.
Sotto questo profilo, chi pensa di battere il centro destra europeo solo con la contestazione della famosa lettera della UE , o del mancato mantenimento delle promesse fatte del passato governo, o con l’analisi delle pluri-finanziarie, non ha capito il carattere profondamente politico e innovativo della destra mondiale e del suo carattere devastante proprio perché capace – in più occasioni e in più paesi europei – di suscitare consenso di massa – vedi Germania, ecc. – e sintesi sociale, esasperando l’egoismo aggressivo, il razzismo e l’individualismo possessivo di questa tarda modernità.
Vengo, dunque, ai punti discriminanti che possono istituire una chiara distinzione tra una nuova sinistra riunificata, in grado di distinguersi dal centro e dalla destra, che possa riconquistare la fiducia dei cittadini; punti di riferimento per nuove idee e per un programma che consenta di parlare in modo lineare alle persone e riacquisire il consenso necessario a diventare forza di governo:
• La prima differenza è quindi la concezione della democrazia e del suo rapporto con l’orizzonte dei diritti umani universali. La non-democrazia attuale è diventata soltanto una tecnica opportunistica per l’allocazione della risorsa “consenso”, e, come tutte le tecniche, esportabile senza alcun riferimento alle identità culturali; sono infatti le segreterie dei partiti che nominano i parlamentari. Viceversa, la democrazia deve avere l’obiettivo dello sviluppo dell’autogoverno sociale attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini alle decisioni e alla scelta dei candidati. La democrazia istituisce la distinzione tra pubblico e privato. I cittadini vogliono sapere dove vanno a finire le loro tasse ed il perché non tutti le pagano. La democrazia non è perciò dissociabile dalla ricerca della verità, dall”informazione corretta sui fatti su cui occorre prender partito, e suoi nemici principali sono la menzogna, il sospetto, la manipolazione dell’informazione o la cosciente disinformazione.
• La seconda differenza riguarda la politica estera, e necessita di una presa di posizione inequivocabile su tutto ciò che va sotto il nome di guerra al terrorismo e agli “Stati canaglia” proclamata a suo tempo da Bush, Blair e proseguita da Brown/Camerum , Sarkozy e Berlusconi; dei rapporti tra Europa e Stati Uniti, relativamente alle relazioni con le altri paesi, aree del mondo, culture e civiltà. Anche in questo campo è decisivo cogliere la differenza tra inganno e verità. Sull’Iraq abbiamo assistito all”apologia della menzogna di stato e all’ipocrisia della missione umanitaria, senza dare ai cittadini italiani una giusta rappresentazione degli enormi interessi di potere economico e di dominio mondiale che hanno spinto Bush a intraprendere questa sciagurata iniziativa. Sono stati impediti, infatti, ogni tentativo di comprensione delle ragioni del mondo islamico, e persino la pietà e la denuncia delle migliaia di morti civili, donne, vecchi e bambini, uccisi dalle bombe intelligenti non solo delle armate Usa. È vergognoso che in un paese democratico chi, pur condannando duramente la ferocia terroristica, esprime indignazione e condanna anche le stragi di civili Iracheni, Afgani, Libici, oggi di Siriani, sia escluso dalla comunità civile e accusato di complicità con il nemico. Guernica, le bombe atomiche sul Giappone, i campi di concentramento ci avrebbero dovuto lasciare nel nostro DNA l’indignazione per la morte. Oggi qualche dettaglio è cambiato negli USA c’è Obama, anche se per molti versi finora è stata una mancata speranza. Le missioni umanitarie sono continuate e l’incapacità di controllare la mala finanza e i grandi poteri che la conformano, stanno accelerando un tragitto di guerre locali che fanno temere una terza guerra mondiale.
• La terza differenza riguarda la tutela della vita e dell’ambiente contro le forme d’egemonia scientifiche e tecnologiche che tendono a distruggere le specificità delle culture e le differenze fra le identità sociali. Il rapporto tra tecnica e vita non è solo una questione etica, ma eminentemente politica, perché si tratta di scegliere fra un”omologazione” sostanzialmente biologista, fondata sulla presunta neutralità della tecnica applicata al vivente, e una visione “umanistica” delle diverse società. Solo la grande politica può governare la tecnica senza far assoggettare l’umanità al sistema tecnico attualmente legato agli interessi economici dei grandi poteri.
Si condividano o no queste considerazioni, in ogni caso è certo che se si vuol battere l’iperpoliticità nascosta del messaggio apparentemente impolitico della destra (Berlusconi, Bossi ed oggi Monti), bisogna alzare il livello del dibattito e riportarlo sui temi che oggi possono definire il terreno della Grande Politica.
A scanso di equivoci, il PD, in quanto tale, non c’entra, è in gran parte omologato a quel modello e va casomai recuperato ad un nuovo dialogo negoziale e va sfidato da sinistra: se si vuole, cioè, semplicemente amministrare meglio di qualcun altro lo staus-quo, o se piuttosto si intende costruire una nuova prospettiva per la società e per il modo, per il nostro futuro: quello che in molti chiamano unnuovo paradigma. Questo è il vero terreno sul quale si gioca il rinnovamento della sinistra e la costruzione di un soggetto unitario e popolare.
Senza di ciò, il termine “sinistra” è un contenitore vuoto; se deve designare mere aggregazioni senza idee forti, valori guida e se al centro della discussione non vi siano le persone concrete. Di questo occorre discutere. Da qui bisogna ricominciare per ricostruire la SINISTRA e la democrazia nel nostro paese.
Non perdiamo questa occasione, che la storia, con tanta durezza, tuttavia ci sta offrendo.
FONTE: http://cambiailmondo.org/2012/08/01/lettera-aperta-ai-segretari-pei-partiti-della-sinistra-italiana/