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Lettera dall’Africa

Da Maurizio Lorenzi

Lettera dall’AfricaEgregio direttore, non so , se mai ti siano arrivate e lette le mie email.

Non cestinarla. Leggi questa ennesima lettera, forse l’ultima. Poi deciderai di strapparla, cestinarla, cancellarla o rispondere.

Donami 15 minuti della tua vita, sono sull’uscio della porta ad attendere, se tu non vorrai, ti ringrazierò, ti saluterò e ritornando sui miei passi andrò vita. Non ti disturberò più.

Io mi chiamo Roberto Riccio, sono architetto , ho 34 anni, vivo tra l’Italia e la Tanzania. Con l’aiuto di mia moglie Stefania, da anni sono impegnato in diversi progetti umanitari in Tanzania. In gran parte dell’Africa di tubercolosi si muore. Di malaria, di dissenteria, di colera, di fame, di sete ancora oggi si muore. Muoiono le madri, muoiono i bambini. Soprattutto i bambini.

In Tanzania tre o quattro bambini su dieci muoiono. Di quelli che restano alcuni diventeranno ciechi per carenza di vitamina A. Bambini con un destino segnato, bambini per i quali raggiungere i cinque anni è un sogno audace, irrealizzabile. E’ di gran lunga più facile morire e morire presto. L’Africa – un posto per morire; il ricovero dei tubercolotici, dei lebbrosi, dei ciechi, dei nessuno. La registrazione delle nascite in Tanzania è un fatto assai opinabile, perciò i bambini di strada insieme ai genitori spesso perdono anche l’identità. “Ma è normale, ci sono cose più gravi”.

Quando andai la prima volta , mi vennero incontro persone a quattro zampe, la lebbra ci aveva mangiato le mani e i piedi. Mi ricordo accanto al pozzo del villaggio una bambina, sana, che si aggiustava i capelli. Le sue mani svelte, un’aria seria, gli occhi curiosi ma lontani. Mi venne incontro. Aveva dodici anni, non andava a scuola, l’unico gioco che conosceva era andare a prendere l’acqua. Era lontana , sembrava ascoltarmi da dietro un vetro. La mia voce sembrava arrivarle piano e piano parlava, senza fretta, senza energia. Le chiesi se avesse voluto essere altrove, mi rispose un’altra voce e questa era forte, roca. Venne dal basso, era la voce della madre. Trentatre anni, era un tronco umano, non aveva le braccia, le gambe si fermavano alle ginocchia. La sua voce mi sorprese, non mi ero accorto di lei, era arrivata da noi strisciando. Chiesi alla bambina se aveva paura a stare lì, se sognava un posto diverso. Questa volta mi rispose, sempre piano , sottovoce. “ Io non ho niente e non ho paura di stare qui. Questo è il mio mondo, la mia vita. Devo stare qui. Senza di me mia madre non potrebbe vivere. Ha bisogno di tutto, da sola non può mangiare, non può vestirsi. Io sono le sue mani. La madre: “questa è la nostra vita, non posso offrirgliene un’altra. E’ così….Almeno lei è sana.” E’ vero, è sana, dietro il suo vetro sottile, invisibile, è sana. Persa chissà dove, ma sana. La sua vita un sacrificio offerto alla vita della madre. E nessuno inorridisce. Per questi disgraziati tra i disgraziati è solo uno dei mille sacrifici umani che si consumano ogni giorno. Altri bambini accudiscono altri malati. Per ogni cieco, il sacrificio di un bambino. Una piccola guida, occhi di bambino che guardano per tutta la vita, la vita di un adulto. Bisognerà aspettare che il proprio cieco muoia per poter guardare la propria vita. Più avanti , ancora una casa bianca, quella dei tubercolotici. Mi assalì un rumore sordo, polmoni gonfi di tosse. Non c’è modo di farli smettere, tossiscono come dannati, senza pace. Si tengono stretti, le mani contro il petto e tossiscono. Non vanno in ospedale a morire, loro muoiono qui, nelle proprie case, per strada, nella savana. Forse fanno bene, perchè gli ospedali, sono inferni annunciati. Negli ospedali vengono per morire. Arrivano da lontano, camminano per giorni, e poi si consegnano ai dottori, confidando in medicine che non hanno, in cure che non sono in grado di offrire. E muoiono, muoiono come mosche. Muoiono di tubercolosi, di malaria, di fame, di sete. Un ospedale serve un distretto di trecentomila abitanti sparsi in un raggio di 150 chilometri, all’interno di esso, Suor Rita, l’unica religiosa dell’ospedale, che vi guiderà lungo un corridoio che toglie il fiato, una puzza che prende alla gola, puzza di fogna, di morte. Una piccola stanza è il pronto soccorso. Un lavandino nero di sangue mai lavato, due letti senza lenzuola, il ferro arrugginito, i materassi lerci. Poi il campo sterile. Galleggiano siringhe su una pozzanghera gialla di pipì e , accanto, qualche flebo, un pò di ovatta. Persino questa povera gente, che non è abituata a sperare in molto, persino loro non si fidano a venire qui. E fanno bene, non ci sono medicine, non ci sono medici, nessuna competenza, nessuna preparazione. Solo quando la loro medicina tradizionale fallisce, quando si sentono senza scampo, solo allora vengono qui. E arrivano con la disperazione di chi va al patibolo. Le donne portano i loro figli come a un sacrificio, li assistono senza lacrime e senza speranza.

Lettera dall’Africa
Tutto ciò, vedo, sento e soffro, tutto ciò è la mia forza, la mia insistenza, non smetterò mai di chiedere collaborazione, di sensibilizzare, di chiedere aiuto, loro mi hanno insegnato a non abbandonare mai. Anche quando non hai più nulla. Non abbandonare mai.

E mai abbandonerò l’idea di donare me stesso alla loro causa. Quante porte chiuse ho incontrato, quante aperte poi sbattute in faccia , tantissime ancora trovate chiuse. Padre Giorgio Poletti mi avvertì. Non sarà semplice trovare collaborazioni. Ma io avendo visto l’inferno, ero convintissimo che ritornando sarei riuscito a risolvere con poco tantissimi piccoli problemi, perché è impossibile rimanere indifferenti alla morte di milioni di bambini che non hanno medicine per curarsi, cibo per mangiare, acqua per bere, vestiti per vestirsi. Avrei scavato tantissimi pozzi, sarei riuscito a portare tantissima acqua e cibo. Ma………non è cosi semplice, sono tutti pronti a dire “ti stimo per ciò che fai”, a darti riconoscimenti , ma io non ho bisogno di questo. Non voglio questo, vorrei essere io a dare un riconoscimento ed il merito agli altri, che vivono per “il riconoscimento”.

E vero che in questa vita siamo tutti impegnati, il lavoro, la famiglia, la quotidianità, ma mi domando perché girando nelle scuole i bambini guardano ed ascoltano chiedendomi continuamente perché. Spesso li osservo , ascolto i loro racconti, e mi si stringe il cuore sentendoli dire : “ non è giusto. Quei bambini, tutta quella sofferenza. Non è giusto. Ricordano i loro nomi, le loro storie ed i poveri sogni. Mi si stringe il cuore. Poi continuano tra loro: “ Ma ti rendi conto? Sognare delle scarpe, un vestito, di non morir di fame e di sete. E’ assurdo!” Più li sento interessarsi a queste cose, a questa gente più mi si gonfia il cuore. Orgoglio, tenerezza ed un gran magone.

Quando sono partito la prima volta, mi guardavano come fossi un matto. Nessuno avrebbe scommesso un soldo sul mio viaggio. Ed oggi eccomi qui ad essere il portavoce dei bambini africani, verso i bambini italiani.

Ricordo una frase di non so chi, ma non importa l’autore. “Non è possibile essere completamente felici, aver pace, fino a quando nel mondo, nella nostra casa comune, ci sarà qualcuno a urlare. Per fame, dolore, sete, per privazione di libertà e dignità, per paura. Questo dolore dobbiamo tenerlo dentro di noi, trasformarlo in gesti, in atti che cambino il mondo, lo rendano più vivibile.”

Non so se questa sia la ricetta giusta, ma oggi ancora mi convince.

Tu e tanti altri, però, dovrete darci una mano.

Roberto Riccio

Sito: www.comicsxafrica.org

Email: [email protected] [email protected]

Caro Roberto, non ho mai cestinato le tue lettere e le ho sempre lette con attenzione. Credo che il tuo appello sia vero e sentito, urlato con il cuore e scritto con la passione per la vita. Merita assoluto rispetto. Nel mio sito, troverai il massimo dello spazio, nel limite del possibile. Come vedi, niente è stato cestinato e mai lo sarà.

   MaLo


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