Chiang Rai. Chang Mai. La terra di Thailandia è un altro mondo che ti accoglie come turista e a cui non interessi come viaggiatore. Una grande città caotica che assomma i vari difetti dell'Occidente, confusione, traffico, inquinamento, uniti quelli dell'Oriente che cresce troppo in fretta, che galoppa vorticosamente trasformando in problemi anche i cambiamenti teoricamente positivi. Un benessere medio che si va diffondendo, un malessere che cresce assieme all'incombenza dell'avere sull'essere. Per me ha una valenza particolare questo stare a Chiang Mai, un ritorno dopo più di 39 anni, un ritrovare un altro mondo, valutandone, come è facile fare, solo gli impatti più negativi, da grasso e opulento abitante dell'Ovest abituato a sottilizzazioni filosofiche che prescindono dalla soddisfazione di bisogni primari che ci appaiono scontati. Tuttavia non si può negare che questa Thailandia abbia poco da offrire al viaggiatore. Interessa di certo e molto il turista, con l'offerta allettante dei suoi monumenti più famosi, di certo straordinari e imperdibili, con il suo mare costellato di resort di sogno, con il business del massaggio e quello delle puttane, per chi è interessato. Tutto il resto è circo e spettacolo preparato per far divertire il visitatore come appendice del villaggio turistico, L'escursione fine a sé stessa, lo zoo delle donne giraffa appositamente importate dalla Birmania, il giardino delle tigri mansuete su cui sdraiasi o tirare la coda per fare la fotografia e se non hai la macchina fotografica, puoi affittare l'apposito professionista in attesa.
L'allevamento dei coccodrilli, lo spettacolo dei serpenti, le scimmie ammaestrate, il circo degli elefanti o le ballerine danzanti, la fabbrica della giada migliore del mondo e così via. Tutto è predisposto per occuparti la giornata e lasciarti la sera pronto per il sea food prima, il night market e le sue montagne di tarocchi poi, invitandoti a scivolare nelle vie laterali, seguendo gli ammiccamenti dei travestiti scosciati nei baretti equivoci che rigurgitano di massaggiatrici provocatorie, vocianti per catturare il cliente attorno alla piazzetta centrale, col finto ring dove due finti pugili di thai boxe fingono di scambiarsi pugni, calci e ginocchiate finte tra i gridolini di grasse americane eccitatissime. Uno dei due smette di boxare e si fa fotografare in posizione aggressiva mentre il suo avversario si rotola a terra spasimando di finto dolore per una finta ginocchiata nei (finti?) genitali. In fondo tutti sono contenti e ne hanno il loro tornaconto materiale o morale, incluso l'appagamento del bisogno di esotico che conduce ai tristi quadretti di ruderi umani ingrigiti che si accompagnano mano nella mano con tristi ragazzine dalla bocca cinguettante e dagli occhi vecchi, a popolare gli innumerevoli i tavoli dei ristorantini attorno alla food square. Appena fuori città per un pellegrinaggio dovuto, eccomi al Wat Doi Su Tep, gemma dorata in cima alla montagna che riluce fulgida sotto l'abbraccio del sole.
Di nuovo, come un tempo, fermo ai piedi della lunga scalinata dai gradini ripidi e faticosi che allora avevo salito con serena e giovanile baldanza, salvo trovarmi senza fiato dopo poche rampe, ché la resistenza del maratoneta delle vette non è mai stato il mio punto di forza. Adesso sarà durissima, forse impossibile o piuttosto no, niente affatto, ecco il comodo nuovo ascensore a cremagliera che ti porta fino in cima, annullando i tempi della meditazione, evitando la sofferente ascesa che prepara l'animo all'incontro con il trascendente, impedendo di sottoporre il corpo ad una disciplina utile soprattutto alla mente per svuotarla di inutili pensieri, di vacue preoccupazioni. D'altra parte, se lo usano tranquillamente anche i monaci con un telefonino per mano, vuol dire che si può fare. Anche il buddhismo deve adeguarsi ai tempi e addio alla trasmissione del pensiero a distanza, è sufficiente una buona SIM carica. Certo forse è tutto snaturato, ma quando rimango seduto dinnanzi allo stupa d'oro, la processione dei fedeli che ruotano intorno pronunciando mantra a mezza voce ha un ché di ipnotico. Le statue immote, con i loro sorrisi ineffabili e gli sguardi persi nel vuoto ti straniano il pensiero e d'improvviso scompaiono i rumori. Solo, come in un incanto il dlin dlin di una campanella di bronzo che il vento fa suonare, uguale ad allora, forse la stessa di allora. La stessa magia nell'aria come se 40 anni non fossero mai passati.
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