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Lettera natalizia a una moglie immaginaria

Creato il 16 dicembre 2013 da Nictrecinque42 @LositoNicola

Carissime, carissimi,
siccome la prossima settimana sarà Natale, ho deciso di darvi un po’ di tregua (e darla anche a me) e permettervi, da domani in poi, di pensare solamente a come passare, nel migliore dei modi permessi dalla crisi economica in corso, questi ultimi giorni di Dicembre con i vostri cari e con gli amici in carne e ossa. I pensieri e le divagazioni del Signor Giacomo, dunque, finiranno oggi, ma ricominceranno – salute permettendo – nel 2014, subito dopo la Befana, alla faccia del mio Terribile Capo che, alla notizia della mia richiesta di ferie, mi ha “letterariamente” dato il benservito:

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Per finire in gloria l’anno in corso, vi regalo un brano-gioiellino scritto da Oriana Fallaci che ho estratto (con grande sforzo elaborativo) dal suo romanzo Insciallah, pubblicato da Rizzoli nel lontano 1990.
Il romanzo in questione lo sto leggendo (con molta calma) in questi giorni e forse, nel 2014, ve ne presenterò altri stralci molto profondi.
Credo che parecchi blogger, me compreso, nutrano velleità letterarie, cioè hanno scritto o stanno scrivendo un libro, perciò la lettera che fra un po’ leggerete cade proprio a fagiolo. Il Colonnello è uno dei tanti personaggi del romanzo Insciallah (in realtà è la stessa Fallaci che scrive sotto mentite spoglie) che sfrutta il tempo libero che riesce a ritagliarsi durante la missione militare internazionale in Libano, precisamente a Beirut, per scrivere il suo primo romanzo, prendendo come fulcro del racconto la complicata e sanguinosa guerra tra palestinesi, israeliani e libanesi di diverse fazioni religiose. Il Colonnello non è sposato, però, per vincere la solitudine delle notti passate nel suo alloggio, si è inventato una moglie e a lei, con regolare frequenza, scrive delle lettere per parlarle dei suoi problemi, delle sue speranze e per aggiornarla su ciò che succede attorno a lui. Fra le tante missive ho scelto quella che reputo più interessante e che, in un certo qual senso, è legata alle nostre comuni passioni letterarie e alla ricorrenza festiva dei prossimi giorni.

Buona lettura.
Nicola

Lettera del Colonnello alla moglie immaginaria

di Oriana Fallaci

Ho un gran bisogno di scriverti, cara, e mi chiedo perché. Forse perché domani è Natale, e sebbene abbia in uggia le feste legate a miraggi extra-terreni non so sottrarmi al fascino di quel giorno. È il giorno col quale si celebra la nascita d’un uomo che credeva ciecamente all’amore e all’immortalità della Vita: passarlo in un’orgia di odio e di morte mi affligge, mi fa sentire più solo di sempre. Non immagini quanto darei per passarlo con te, in un letto caldo di te, tenendoti nelle mie braccia e ascoltando le campane che invitano alla letizia. (Che fantasticarti non mi basti più?) O forse il Natale non c’entra, l’insufficienza del mio fantasticarti nemmeno. Ho un gran bisogno di scriverti perché ho un gran bisogno di conversare con me stesso, farmi compagnia, superare l’inquietudine che all’improvviso mi innervosisce. Eh! Non è uno stato d’animo ingiustificato, il mio: ne son successi, di cataclismi, in queste ultime settimane e in queste ultime ore. […]

Esiste un geniale aforisma sul senso organizzativo dei miei connazionali, lo sai, e questo è il caso di ricordarlo: «Il paradiso è un luogo dove i poliziotti sono inglesi, i cuochi sono francesi, i fabbricanti di birra sono tedeschi, gli amanti sono italiani (sic), e tutto è organizzato dagli svizzeri. L’inferno è un luogo dove i poliziotti sono tedeschi, i cuochi sono inglesi, i fabbricanti di birra sono francesi, gli amanti sono svizzeri, e tutto è organizzato dagli italiani.»
Ma parliamo d’altro. Parliamo della mia piccola Iliade, del mio romanzo da scrivere col sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi.
L’ho incominciato, cara, ci lavoro! Ogni notte mi chiudo in ufficio e lavoro, lavoro, lavoro: navigo nelle difficili acque del romanzo agognato. Non so in quale porto mi condurrà. Neanche a chi lo scrive un romanzo confessa subito i suoi molti segreti, rivela subito la sua autentica identità. Come un feto privo di lineamenti precisi, all’inizio chiude in sé una miniera di ipotesi: tiene in serbo una miriade di sorprese buone o cattive. E tutto è possibile. Anche il peggio. Però il corpo è già delineato, il cuore batte, i polmoni respirano, le unghie e i capelli crescono, nel volto incerto distingui con chiarezza gli occhi e il naso e la bocca: posso presentartelo. Posso addirittura anticiparti che la storia si svolge nell’arco di tre mesi, novanta giorni che vanno da una domenica di fine ottobre a una domenica di fine gennaio. […]

Fra protagonisti e comparse, una sessantina di personaggi. Ma di giorno in giorno il cast si arricchisce, il palcoscenico si affolla, e presto ne arriveranno di nuovi. Che Dio mi aiuti… Sai che travaglio dosarli, inserirli nella struttura del racconto, muoverli al momento giusto e nella maniera giusta cioè ai fini della trama? Certe notti mi sento peggio d’un incauto burattinaio che non ha dita sufficienti per reggere i fili di tutti i suoi burattini. E tremo.
Il guaio è che non riesco a limitarli, ridurli. Mi parrebbe di mutilare il romanzo a ridurli, di ritrarre la vita come la ritraevano i film muti o in bianco e nero. Non mi piacciono i film muti o in bianco e nero. Non li capisco gli esteti che prediligono i film muti o in bianco e nero, che ebbri d’estasi per il silenzio e la monocromia che li caratterizza ne esaltano “l’inimitabile intensità” o “l’essenzialità”. Mancano i suoni della Vita a quell’intensità, mancano i colori della Vita a quell’essenzialità. La Vita non è uno spettacolo muto o in bianco e nero. È un arcobaleno inesauribile di colori, un concerto interminabile di rumori, un caos fantasmagorico di voci e di volti, di creature le cui azioni si intrecciano o si sovrappongono per tessere la catena di eventi che determinano il nostro personale destino.

Cara, una delle cose che terrei a dire nella mia piccola Iliade è proprio il fatto che il nostro personale destino viene sempre determinato da una catena di eventi tessuti dall’intrecciarsi o dal sovrapporsi di azioni non compiute da noi. Ad esempio dal semplice gesto d’una persona il cui personale destino verrà a sua volta determinato dal semplice gesto di un’altra persona, all’infinito, con una meccanica estranea alla nostra volontà cioè al nostro libero arbitrio. E per dirlo o tentar di dirlo devo usare il maggior numero possibile di burattini. Cosa che mi diverte, oltretutto, perché attraverso di loro posso esprimere me stesso. I miei molti me stesso, tutti i miei stessi che non sapevo d’essere ed ho scoperto d’essere… Flaubert diceva Madame-Bovary-c’est-moi, sono io. Bè, io sono Angelo, sono Ninette, sono il Condor, sono Charlie, sono Cavallo Pazzo, sono Gallo Cedrone, sono Zucchero… […] sarò e sono qualsiasi creatura che nasca dalla mia fantasia, annidi tra le pieghe del mio cervello, che esista grazie ai miei pensieri e ai miei sentimenti, che me li succhi come un vampiro succhia il sangue. La simbiosi è talmente completa che non mi è possibile differenziarmi da loro. Quando essi piangono, piango con loro. Quando essi ridono, rido con loro. Quando essi hanno paura, ho paura con loro. Quando muoiono, muoio con loro. E non me ne separo mai. Mai! […]
E mi sento Giove che dalla cima dell’Olimpo tira i fili dei suoi burattini, degli uomini, a suo capriccio seleziona quelli da salvare e quelli da sacrificare, a suo estro crea e distrugge i colori dell’inesauribile arcobaleno, i rumori dell’interminabile concerto. Insomma domina l’Universo. […]

Ci vago sempre, nella stratosfera. Fluttuo in una specie di lucida follia. Cara, per scrivere bisogna essere insieme lucidi e pazzi. Però che meraviglia, quel mostruoso connubio! Che privilegio fluttuarci, che sublime responsabilità! Te Io dimostrerò con l’aiuto d’un argomento che oggi è tema di saggi accademici ed elaborate polemiche, litigi da salotto e best-seller, ma che quasi tutti affrontano scansando il punto che preme. Ecco qua. Apparteniamo a un’epoca in cui Cinema e Tv si sostituiscono alla parola scritta, al racconto scritto, e nel dialogo con il mondo i registi anzi gli attori si sostituiscono agli scrittori. Nessuno infatti, neanch’io, resiste al narcotico richiamo dello schermo, al perpetuo svago offertoci da un sistema di comunicazione che trasforma in pubblico trastullo anche la sacra intimità del sesso e la inviolabile solennità della morte. Soggiogati, ipnotizzati dalla moderna Medusa, passiamo ore a guardare le sue immagini e ascoltare i suoi suoni. Di conseguenza leggiamo assai meno, e molti non leggono più. Ritengono che si possa vivere senza leggere cioè senza la parola scritta, il racconto scritto, gli scrittori. Invece no. No, e non tanto perché lo stesso cinema e la stessa Tv non prescindono dalla parola scritta, dal racconto scritto, dagli scrittori, quanto perché lo schermo non permette e non permetterà mai di pensare come si pensa leggendo: le sue immagini e i suoi rumori distraggono troppo, impediscono di concentrarsi. Oppure suggeriscono riflessioni troppo superficiali e passeggere. Inoltre si preoccupa troppo di stupire e divertire, lo schermo, diverte e stupisce con mezzi troppo rudimentali e giocattoleschi: se ne frega delle tue meningi.

È superfluo ricordare che per leggere ci vuole un minimo di meningi cioè di intelligenza e cultura, superfluo sottolineare che qualsiasi idiota o qualsiasi analfabeta con due occhi e due orecchi può guardare le immagini e ascoltare i suoni della moderna Medusa. Ma per vivere, per sopravvivere, è necessario pensare! Per pensare è necessario produrre idee, fornirle! E chi più dello scrittore produce idee? Chi più di lui le fornisce? Lo scrittore è una spugna che assorbe la vita per risputarla sotto forma di idee, è una mucca eternamente incinta che partorisce vitelli sotto forma di idee, è un rabdomante che trova l’acqua in qualunque deserto e la fa zampillare sotto forma di idee: è un mago Merlino, un veggente, un profeta. Perché vede cose che gli altri non vedono, sente cose che gli altri non sentono, immagina e anticipa cose che gli altri non possono né immaginare né anticipare… E non solo le vede, le sente, le immagina, le anticipa: le trasmette. Da vivo e da morto. Cara, nessuna società s’è mai evoluta al di fuori degli scrittori. Nessuna rivoluzione (buona o cattiva che fosse) è mai avvenuta al di fuori degli scrittori. Nel bene e nel male, sono sempre stati gli scrittori a muovere il mondo: cambiarlo. Sicché scrivere è il mestiere più utile che ci sia. Il più esaltante, il più appagante del creato.
Esagero? Cedo alla retorica dell’entusiasmo, alle utopie del neofita? Anticipo la tua replica:

«Calma, signor mio, calma. Non dimenticare quel che nell’illuminato Settecento diceva il matematico e philosophe Jean-Baptiste d’Alembert. In un’isola selvaggia e disabitata diceva, un poeta (leggi scrittore) non sarebbe molto utile. Un geometra sì. Il fuoco non fu certo acceso da uno scrittore, la ruota non fu certo inventata da un romanziere. Quanto al mestiere più esaltante e più appagante del creato, aggiungerai, domandalo agli scrittori che scrivono ogni ora e ogni giorno per anni, che a un libro immolano la loro esistenza. Ti risponderanno colonnello, crede seriamente che per dare un tale giudizio basti scrivere qualche ora dopocena? Crede seriamente che per scrivere un libro basti avere idee o costruire a grandi linee una storia? Crede seriamente che scrivere sia una gioia?!? Glielo spieghiamo noi che cos‘è colonnello. È la solitudine atroce di una stanza che a poco a poco si trasforma in una prigione, una cella di tortura. È la paura del foglio bianco che ti scruta vuoto, beffardo. È il supplizio del vocabolo che non trovi e se lo trovi fa rima col vocabolo accanto, è il martirio della frase che zoppica, della metrica che non tiene, della struttura che non regge, della pagina che non funziona, del capitolo che devi smantellare e rifare rifare rifare finché le parole ti sembrano cibo che sfugge alla bocca affamata di Tantalo. È la rinuncia al sole, all’azzurro, al piacere di camminare, viaggiare, di usare tutto il tuo corpo: non solo la testa e le mani. È una disciplina da monaci, un sacrificio da eroi, e Colette sosteneva che è un masochismo: un crimine contro sé stessi, un delitto che dovrebbe essere punito per legge e alla pari degli altri delitti. Colonnello, c’è gente che è finita o finisce nelle cliniche psichiatriche o al cimitero per via dello scrivere. Alcolizzata, drogata, impazzita, suicida. Scrivere ammala, signor mio, rovina. Uccide più delle bombe.»

Lo so. L’ho capito. Jean-Baptiste d’Alembert a parte (escludo che egli avesse ragione), so anche che la mia piccola Iliade potrebbe essere una chimera: l’embrione d’un libro che non nascerà mai. Potrebbe essere addirittura una gravidanza fittizia come quella delle donne che desiderano un figlio al punto di sospendere col subconscio il ciclo mestruale, gonfiare il ventre d’aria, illudersi che contenga un feto. Ma la felicità è sempre un’illusione, e fittizia o no questa gravidanza mi regala una parentesi di felicità. Ti abbraccio, cara.
Ti ringrazio di avermi aiutato a conversare con me stesso, farmi compagnia, superare l’inquietudine che mi innervosiva, e ti dico Buon Natale…

Fine

Fanatico1

Fanatico2

 

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Crediti: la vignetta iniziale è una scansione – indebita – dalla Settimana Enigmistica; La striscia dei Peanuts di Charles M. Schulz è una scansione – indebita – dalla rivista Linus di Dicembre 2013; gli auguri di Giacomo sono opera mia. Le parentesi quadre con all’interno dei puntini, presenti nella lettera, sono pezzi di testo non essenziali che ho saltato perché avrebbero allungato troppo un testo già lungo di per sé.

Arrivederci nel 2014!!!!! 

THE_PR~1

Nicola


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