Magazine Cultura
Non si nasconderanno, dunque, lo stupore e il disincanto, quando dai ragazzi (pur accesi dall'insperato armistizio rispetto alle verifiche di fine anno) è venuta fuori una risposta univoca nel senso, sia pure articolata (e talvolta perfino creativa) nei modi: quella di una storia letteraria come elenco – ora di autori, ora di opere – di cose da sapere, da ricordare, da tramandare (evviva l'improvvisa dimestichezza col gerundivo!). Cose, sostituente notazionale che scongiura la necessità di dare un senso e un valore a ciò che si sta affrontando. Più o meno interessanti o facili, ma cose, al plurale; cose che qualcuno – non importa né chi, né come, né perché – si è dato la pena di raccogliere e che ora tocca a loro mettere in ordine, cercando di non essere troppo coinvolti in queste stranissime operazioni. In classe, abbiamo trovato maggiore agio nel discriminare il termine 'catalogo' rispetto a quello di 'inventario' che non nel salto dal discreto al continuo. Perché l'elemento caratterizzante della disciplina scolastica per i ragazzi è quello di elenchi di nomi, dati, fatti, suddivisi al più in pacchetti con delle etichette sopra. Cose alle quali i ragazzi ammettono di non essere interessati, pur apprezzandole, talvolta, sinceramente, perché “la vita va altrove”. Se riuscissimo a far capire loro quanto radicata nella storia della letteratura una simile affermazione, e quanto la differenza delle risposte in merito tra epoche e culture sia significativa ed essenziale per fare chiarezza in sé, saremmo già a ottimo punto.
Capita anche il caso di alunni molto bravi nell'arte di presentare contenuti o, addirittura, di penetrare i problemi, tanto sul piano culturale, quanto su quello esistenziale. Eppure, madamina, proprio uno di questi ragazzi ha difeso con una certa tenacia l'ipotesi del catalogo, quasi contraddicendo la sua indubbia sensibilità. Anzi, la cosa che più mi ha colpito in quest'esperimento è stata proprio la sicurezza con cui la classe ha reagito alla domanda, dopo l'iniziale sconcerto. Voglio dire: i ragazzi hanno stentato a definire la storia letteraria solo per via della loro imperizia linguistica e per la desuetudine nell'affrontare di petto in gruppo un problema diverso dalla scelta di una pizzeria o di un film, ma le idee erano chiarissime per tutti. E, insieme alle cose, viene confermato il pregiudizio – paradossalmente contraddittorio – per cui la letteratura è la storia letteraria, ovvero: per molti giovani (e non giovani), l'unica esperienza possibile della letteratura è un tipo di studio che se ne fa a scuola, che consiste nell'organizzare nomi su una linea del tempo che fa presto a svanire. Tale studio può anche essere condotto con scrupolo e adolescenziale (dunque forte) passione, ma rimane episodio confinato ai doveri e alle occasioni nelle quali valga la pena sfoggiare un po' di "cultura generale".
La scuola è responsabile di un incontro che, ad andar bene, nell'80% dei casi non ha seguito fuori dalle aule e io credo che, senza la consapevolezza di questo presupposto, ogni insegnamento letterario sia destinato a fallire. Ciò qualifica, certo, l'importanza del momento formativo proprio per la sua unicità, ma intanto scoraggia rispetto alla penetrazione che ci si auspica di certe esperienze, idee e capacità argomentative al di fuori dei testi che le veicolano, quindi deve spingere noi insegnanti a formulare un quadro quanto più possibile ampio e variegato di approcci alla conoscenza letteraria, che si basi innanzitutto con un incontro personale con i testi. D'altra parte, non si può leggere che una selezione ridotta – per non dire ridicola – di opere e questo impianto conologico, tematico, concettuale nel quale innestarle deve essere organico e ben progettato a monte, per evitare che si confini la panoramica storica alle cesure, ai momenti che – per ragioni ben note a tutti – non vengono affrontati attraverso opere o/e autori. Voglio dire, per esorcizzare l'eventualità di una storia come esperienza chiusa, giustificata dal confine dei paesi e delle discipline tra di loro, ma soprattutto come riassunto di ciò che non si conosce e non si affronterà mai, come terra di niente e di nessuno.
I ragazzi associano spesso la letteratura a questo suo "negativo" che finisce con il sostituirla. Né lo svogliato piluccare di dati da tralci laschi, né il fiacco addobbo su rachitiche linee del tempo con qualche avvenimento cambiano la natura del problema: per noi insegnanti, si tratta di far coesistere il testo e la sua storia. La filigrana che contribuisce a spiegare la figura di Petrarca e magari lo congiunge con l'episodio del Canzoniere di Saba è forse un obiettivo troppo complesso per attendersi un riscontro immediato degli alunni, anche di quelli dal più vivace spirito critico, ma identificare un genere, una tendenza, un asse “comportamentale” di alcuni scrittori rispetto all'evento letterario è determinante. Evitando di irrigidire tale ossatura in nuovi preconcetti, l'obiettivo è quello di creare una sensibilità artistica e di aiutare i ragazzi a individuare delle scelte che prescindono dalla mera evidenza biografica (rispetto ai pochi dati in loro possesso), ma sono incisivi e pregnanti, anzi addirittura fondano a loro volta un'esistenza.
Nei limiti del possibile, la scuola dovrebbe orientare il suo lavoro nel senso di un contributo a formare il lettore di domani: il lettore come risultato, o anche solo come capacità, come apertura al mondo, soprattutto non come premessa inverosimile nella didattica della storia letteraria: fatte salve rarissime eccezioni – che non possono in nessun caso indirizzare l'impianto formativo – i ragazzi non arrivano mai in classe come lettori, al più come persone che qualche volta, o magari anche spesso, hanno letto dei libri. Il problema, dunque, che qui non si può affrontare, è definire le caratteristiche di questa persona che si definisce un “lettore”: e se non si può affrontare qui è perché si tratta di un problema sociale di cui la scuola paga solo le conseguenze. Oggi si legge moltissimo, si dice, e il problema non consiste tanto se si tratti della pagina di Wikipedia o delle poesie di Rilke, quanto nel distinguo tra strumento rapido di accesso a delle informazioni o per un gusto meno immediato e più urgente sul piano esistenziale. Senza arrivare alle ambiziose formule crociane (e vociane), il saper leggere deve essere una formula che abbia una sua concreta e nobile ricaduta in un'apertura benefica verso un particolare codice comunicativo.
Il problema che invece in sede scolastica deve essere concretamente affrontato è quello di bilanciare letteratura come esperienza e storia letteraria come sintesi pret-à-porter (perché è inutile e insensato negare l'esigenza di schemi e scheletri orientativi). Da professore, infatti, rimane un risultato di povertà per me inaccettabile il fatto che i ragazzi inizino contemporaneamente fino a quattro storie letterarie e che dopo nove mesi si abbarbichino ancora convinti su idee tanto generiche e di palese inadeguatezza come quella del catalogo, senza aver tratto profitto dal dialogo in classe, ovvero da ciò che – tra l'altro – i classici stessi hanno detto loro. Come la letteratura, il racconto che la restituisce alle nuove generazioni è un panorama, ovvero un testo, che va costruito volta per volta. Non si può sostenere che degli adolescenti vengano esposti (nella migliore delle ipotesi) a una tale convergenza di discorsi (circa tredici ore settimanali, senza considerare la storia e la filosofia) e rimangano immutati o addirittura indifferenti di fronte all'assedio culturale subito; anzi, considerati tali esiti come presupposto, non si giustifica neanche lo spreco del pallido pacchetto umanistico di cinque ore che offrono gli istituti tecnici.
È criminale usare il tempo per ingozzare i ragazzi di informazioni subito verificabili con batterie di test (strategia usata in molte scuole), almeno quanto è improponibile rinunciare ai dati in nome di un dialogo effimero, cervellotico ed esangue; d'altra parte, non ha ragione di essere portato avanti un discorso che non consenta ai ragazzi di confrontarsi sui significati e sulle idee e di mettersi in gioco personalmente. Fermo restando che ogni soluzione è personale e nasce dal dialogo concreto che si instaura in classe (per cui ci sono strategie che con un docente funzionano e con un altro no, senza contare che in questa classe qualcosa di sbagliato devo pur averlo fatto), io trovo molto utile umanizzare gli agenti comunicativi (chi scrive?, a chi?, perché?, quando?, e soprattutto: cosa dice?, come glielo dice?) in modo da creare una rete di relazioni che possano essere più attuali e verificabili per i ragazzi, anche nella loro esperienza quotidiana. Naturalmente, tutto ciò presuppone a fianco, se non alla base, un dialogo costante, un dibattito sull'uso vivo e corrente della lingua e una progressiva abitudine alla consapevolezza del proprio operato. Una scuola che non punti ad aiutare i ragazzi nel passaggio da “sto facendo i compiti” a “sto affrontando questo argomento” o ancora meglio “questo problema” non è una scuola dell'istruzione vs. una scuola dell'educazione, è semplicemente una scuola che non ha ragione di essere frequentata rispetto ad altri contesti nei quali si acquisisce qualità essenziali come disciplina ed esattezza nelle mansioni lavorative di cui si è responsabili.
Purtroppo non seguirò oltre il cammino di questa classe. Quello che mi auguro per questi e per tutti i ragazzi, è che la scuola - e lo studio letterario in particolare - educhi al coinvolgimento rispetto al vissuto proprio e altrui. In questo senso, potrebbe forse più facile e produttivo per noi docenti capovolgere la domanda iniziale, secondo un modello e un cruccio che nella storia letteraria è costante: non cosa sia la letteratura sia per i ragazzi, ma cosa sono le nuove generazioni nella letteratura, quali idee di futuro si sono offerte nel corso del tempo e con quale idea rispondiamo noi oggi.
(Pubblicato su Critica Letteraria il 7/9/2013)
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