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Lettere a Primo Levi: Romanzi dettati da Alien

Da Leragazze

Lettere a Primo Levi: Romanzi dettati da AlienCaro Primo,

si diceva la volta scorsa che i tuoi racconti hanno l’esattezza pacata di un saggio storico, e viceversa i tuoi saggi hanno l’atmosfera evocativa di un racconto, meglio ancora se di fantascienza (nel senso inglese di science fiction, narrativa basata sulla scienza). Aggiungo che i titoli dei tuoi saggi, da soli, bastano a stimolare la curiosità e la fantasia, ad esempio Romanzi dettati dai grilli o Domum servavit.

Nel primo caso, il tema è la possibilità di inventare trame romanzesche a partire dal comportamento animale. Comportamento spesso tutt’altro che idilliaco, tant’è che, con una certa dose di sadismo, ci propini le abitudini di ragni, mantidi e compagnia cantante, i grilli. Se poi si associa il fatto che il tuo ultimo racconto, pubblicato su La Stampa pochi giorni “prima di”, era un’intervista immaginaria a un ragno, in cui riprendevi uno per uno questi temi… ma torneremo un’altra volta su queste simpatiche bestiole a otto zampe, che a quanto pare erano tra le tue preferite.

Dove però dai il meglio della tua atleticità mentale sono quei titoli che spiazzano, senza lasciar indovinare l’argomento. Il detto latino domum servavit, riferito alla brava matrona che “custodisce la casa”, diventa infatti lo spunto per un approfondimento sulle origini della gommalacca. E non basta: inizi il discorso con una serie di considerazioni sui canali di comunicazione. E infine vai a parare in una descrizione dell’antica tecnica della lavorazione della gommalacca, un brano da antologia che vale la pena riportare per intero per la sua stupefacente convergenza tra ricostruzione storica, denuncia sociale, citazione colta (da Kipling), perfezione linguistica, horror, bellezza “aliena”. Sullo sfondo, l’episodio dantesco del conte Ugolino e la distorsione della sacralità biblica della Parola.

La resina [della gommalacca] veniva fusa e filtrata attraverso tela per eliminare gli insetti e i frammenti di legno. La si lasciava solidificare in forma di blocchi piatti di cinque o sei chili, che venivano quindi nuovamente riscaldati affinché la resina diventasse pastosa. Entravano allora in scena gli “stenditori”, che per lo più erano giovanissime stenditrici: dall’alba al tramonto esse si accovacciavano a terra, afferravano il blocco in cinque punti, con le mani, i denti e le dita dei piedi, e si raddrizzavano rapide allargando le braccia; il blocco veniva così disteso in un foglio di contorno pentagonale, alto come la stenditrice, trasparente e fragile come il vetro, che veniva poi frantumato in scaglie sottili e quindi facilmente solubili. In questo gesto infinite volte ripetuto, le bambine-macchine sorgevano dalla positura chiusa del germe a quella aperta del fiore. Doveva essere un balletto comico, crudele e gentile: vi si ravvisa un ingegno cinico quanto quello che aveva privato delle gambe le femmine-insetto [che producono  la resina]; un ingegno che non esitava a ridurre l’uomo a strumento, a farlo regredire all’atto animalesco in cui la bocca, officina della parola, ridiventava attrezzo per mordere.

Tu, che ad Auschwitz hai lavorato nei cantieri della Buna, sapevi che cosa si nasconde dietro i bei prodotti scintillanti che offre il mercato. Ieri e oggi.

Tuo d



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