Levanto: ritorno alle origini
Da Simonetta
Un breve periodo di ferie mi ha portato a Levanto, paese di origine di mio marito e per questo motivo ho lasciato che fosse lui a trasmettervi le sensazioni che suscita questa terra che si presenta aspra ma con fascino tutto particolare.
Non chiedetemi com’è Levanto. Quando ci ritorno, troppo raramente
per averne un ‘idea allineata con il tempo che scorre, mi prende una specie di
strabismo mentale. I miei occhi vedono la Levanto di adesso, ma la mente ha
incisa, indelebile, quella della mia infanzia.
Ogni pietra, ogni angolo, il profilo dei monti che fanno da
sipario all’ammasso di palazzi del fondovalle, i ciottoli delle sue spiagge,
tutto si porta dentro un ricordo, un’immagine di quei tempi. Non riesco proprio
a vederla com’è.
Levanto è la porta delle Cinque Terre. Sontuoso proscenio di
uno dei posti più belli della Terra. Delle Cinque Terre non ha l’impatto
scenografico che taglia il respiro, né quel tuffo all’indietro nel tempo
preservato da un isolamento secolare, bucato solo dai binari del treno, unico
mezzo di trasporto per chi non voglia affrontare gli incerti di un viaggio per
mare. Proprio il suo essere più aperta al mondo, più spaziosa e con maggiori
possibilità di alloggio la rende preziosa per chi è pronto a muoversi per
scoprire un territorio denso di bellezze e di storia.
Il mare è la sua fondamentale ricchezza. Mare aspro, che
sprofonda immediatamente in abissi inimmaginabili e perciò vivo, capace di
affascinare chi vi si immerge. Mare che sa mostrare la sua forza possente con
le mareggiate che battono per giorni la costa di sabbia e di scoglio. Agognate
dal popolo delle tavole, che ha eletto questo borgo ad una delle capitali dei
cavalcatori di onde.
Surf, diving, trekking, parole straniere per la Levanto di
oggi, come a segnarne un carattere cosmopolita, un posto sulla buccia del
pianeta dove si intersecano i percorsi delle persone di ogni provenienza.
Parole che sanno di movimento, di gioventù, che porterebbero a dire che questo
NON E’ UN POSTO PER PIGRI.
Eppure la Levanto incisa nella memoria non coincide con
questa e non solo perché mi fa affiorare sprazzi di ricordi, brandelli di
immagini sbiadite da anni ’60, con un giovanotto eccentrico, nostro vicino di
casa, che girava su un vecchio Maggiolino interamente coperto di scritte con la
vernice bianca. Il suo nome allora non lo conoscevo e anche se l’avessi saputo
non mi avrebbe detto niente. Ero troppo piccolo per sapere chi era Gino Paoli e
solo molti anni più tardi avrei ricollegato alle mie estati di allora i versi
di una canzone:
… e il tempo è dei giorni
che scorrono pigri …
Non è solo questo a darmi la vertigine dello strabismo. E’ anche,
forse, la lontananza più che decennale, che mi fa pensare con distacco al
carattere scontroso della gente di qui. Alla loro innata incapacità di guardare
ad un orizzonte più ampio, che li potrebbe sollevare dalla meschinità
dell’interesse immediato. Alle chiacchiere interminabili sulla roba, su chi ce
l’ha e chi non ce l’ha. Alle possibilità che si sono perse, a quelle che ancora
si perdono e si perderanno.
No, non chiedetemi di dire com’è Levanto. Io non ne sono
capace.
(Gianni)
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