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Gli stessi pregiudizi avuti qualche giorno fa con Ida, li si ha anche con Leviathan, c'è poco da fare i radical chic.
Provenienza russa, trama burocratica, e una durata, questa volta, che si fa sentire (140 minuti).
Ma anche in questo caso, fortunatamente, le aspettative si ribaltano, e quello che si pensava un film pesante, tecnico, si fa invece un film di denuncia, pur essendo sovvenzionato dal governo, che mette in luce tutti i difetti dei politicanti di poco conto, l'ingiustizia e la corruzione imperante anche nella madre Russia.
A questi temi, vanno ad affiancarsi anche quelli più terreni come l'amore, il senso della famiglia e del possesso, con un sferzata verso il giallo nel finale che lascia pienamente soddisfatti.
Ma procediamo con ordine, presentando i protagonisti e la storia:
Nikolai è un bravo artigiano, che ereditata la casa di famiglia ne ha fatto un nido splendidamente mantenuto per il figlio ribelle e per la nuova moglie, lavoratrice e sua sostenitrice. Nikolai però, come tutti i suoi amici, ci dà dentro parecchio con le immancabili bottiglie di vodka che assiepano la sua dispensa, lasciando uscire il suo carattere animale e astioso.
La rabbia monta con il corrotto sindaco della cittadina che gli ha intentato causa per impadronirsi di quello che sembra un terreno occupato, per demolire la sua casa e costruire un nuovo palazzo che ammoderni la misera città.
A difendere Nikolai, arriva così da Mosca il suo vecchio compagno dell'esercito, Dimitri, che con il suo fascino da avvocato da capitale e i suoi modi da conoscitore delle non regole, cercherà di sistemare le cose.
Con le bevute che si moltiplicano, le carte che vengono messe in tavola e la questione giudiziaria che avanza in tutti i suoi riti, Leviathan si sofferma però sugli stati d'animo di questi protagonisti, sulle loro battaglie interiori per migliorarsi che vanno però a schiantarsi contro un muro.
Un po' come quelle grandi balene libere che si ammirano dai promontori, i cui scheletri si arenano nelle spiagge.
I drammi da raccontare sono quindi anche altri, e il regista Andrey Zvyagintsev è bravo a mantenere gli equilibri tra il politico e il privato, tra la denuncia e i sentimenti, scegliendo il più delle volte di non mostrare, di tacere i momenti clou come tanti piccoli anticlimax.
Quello che ne esce è un film russo che non sembra russo, dal sapore internazionale soprattutto in fase di scrittura prima che di composizione, che è già riuscito a conquistare Cannes (miglior sceneggiatura) e i Golden Globe, arrivando infine nella cinquina finale dei migliori film stranieri agli Oscar.
Il merito è tutto di una realizzazione accurata, di attori bravi e capaci, di una storia, soprattutto, che lancia piccoli squarci -seppur velati dai fondi statali della produzione- sulla Russia e sul suo mondo, con i piccoli inevitabilmente schiacciati e arenati assieme ai loro relitti.
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