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Liberalismo e socialismo. Considerazioni di…

Creato il 12 ottobre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Joseph_Schumpeter_ekonomialariaMichele Marsonet. E’ noto che il proclamarsi liberali sembra essere diventata una sorta di pre-condizione del discorso politico sensato. Il problema che occorre affrontare in via preliminare è in fondo il seguente: esiste oggi un’alternativa plausibile alle società di libero mercato, e se sì, “come” pensarla? La via utopica appare impercorribile. In particolare, i dubbi sulla sua praticabilità derivano dalla finitezza e dalla natura controvertibile della conoscenza umana, che può bensì aspirare a raggiungere l’assoluto, ma non vi riesce poiché – come accade nella scienza – una teoria che sembra oggi valida viene superata da una teoria successiva, la quale riesce a spiegare un maggior numero di fatti. Se ciò è vero, occorre costantemente giudicare le costruzioni economiche e politiche da un punto di vista storico e, quindi, relativo. Nulla ci autorizza a credere che gli ordinamenti capitalistici e liberaldemocratici costituiscano il termine della storia umana. Anche capitalismo e liberaldemocrazia sono sistemi legati a circostanze contingenti, ed è legittimo supporre che essi possano un giorno venir superati, anche se è un dato di fatto che oggi l’esperienza ci mostra la loro vittoria nei confronti di altri tipi di ordinamento sociale.

Qualcuno potrebbe chiedere: “quale” tipo di superiorità possono vantare capitalismo e liberaldemocrazia? La risposta è che si tratta di una superiorità pratica; un sistema politico ed economico si dimostra migliore di un altro non se è teoricamente attraente per la mente di un filosofo, ma quando si rivela più adatto a soddisfare le esigenze vitali degli individui. E’ altresì importante rilevare che tale ordinamento si rivela tanto più valido quanto più è flessibile e suscettibile di revisione interna. Sia il capitalismo che la liberaldemocrazia ammettono in questo senso continui correttivi.

Si è notato da più parti, tuttavia, che il liberalismo è ormai diventato, anche grazie alla sconfitta del suo antagonista storico nel secolo scorso, un contenitore vuoto che può essere riempito con i contenuti più disparati. E non è certo un caso che esso, sconfitto il nemico, si trovi oggi in una situazione di stallo. Il liberalismo si reggeva sul confronto con un “altro da sé”, e quindi negandolo; finito tutto ciò ci si accorge che la sua proposta positiva è, tutto sommato, debole.

Si può, allora, ipotizzare una sorta di “destino comune” di liberalismo e socialismo? Ne parlò negli anni ’40 del secolo scorso Joseph Schumpeter, che teorizzò la necessaria convergenza fra le due tradizioni di pensiero. A suo avviso l’espansione delle attività produttive e la tendenza alla razionalizzazione burocratica (nel senso attribuito a questa espressione da Max Weber) rappresentavano gli elementi di un processo che avrebbe condotto al superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione. Friedrich von Hayek notò a questo proposito che “a Schumpeter piacevano molto i paradossi. Voleva scioccare le persone affermando che il capitalismo era certamente una opzione migliore del socialismo ma che non sarebbe potuto durare, mentre il socialismo è una cosa molto negativa che però non può far a meno di verificarsi. Dietro a questo paradosso vi è l’idea secondo cui alcune tendenze di opinione – che egli osservava correttamente – erano irreversibili. Questo è fondamentalmente sbagliato. Non esiste alcuna semplice comprensione di ciò che renda necessario che certe persone, in certe condizioni, credano in certe cose,  si può tentare di spingere le opinioni in una certa direzione, ma è impossibile (o almeno io non oserei farlo) predire la direzione verso cui andranno effettivamente”.

Naturalmente oggi le previsioni di Schumpeter – indipendentemente dal loro grado più o meno elevato di paradossalità – sono state contraddette. Eppure, esiste un senso in cui l’idea del destino comune può apparire plausibile. E’ legittimo infatti chiedersi se, ai nostri giorni, liberalismo da un lato e socialismo (inteso soprattutto nell’accezione marxiana) dall’altro possano ancora essere considerati come le due dimensioni esaustive – e quindi uniche – dell’ambito dell’agire politico. Chi si ostina a ragionare in questi termini non pecca forse di eurocentrismo, continuando a non vedere la possibilità di trascendere proposte politiche elaborate nell’Europa del secolo scorso? Essi non sarebbero in grado di offrire risposte adeguate ai problemi nuovi che le società postindustriali, toccate in maniera essenziale dalla rivoluzione tecnologica e informatica, debbono affrontare.

Adottando questo approccio, il destino comune di liberalismo e marxismo sarebbe, dunque, di segno negativo, caratterizzato dalla difficoltà di sopravvivere l’uno all’altro e di sopravvivere entrambi di fronte all’espansione su scala planetaria di strutture sociali altamente tecnologizzate: in altre parole, di fronte al processo di crescita costante della complessità. Secondo questa interpretazione anche il liberalismo, nonostante la sua vittoria, non riesce a elaborare risposte plausibili all’esigenza di combattere gli effetti della differenziazione sociale presente nelle società postindustriali. A fronte della costante crescita della complessità, la concezione della democrazia intesa come partecipazione politica necessaria e quale valore morale assoluto appare datata, come parimenti obsoleta è l’idea di una società non differenziata dalla divisione del lavoro. Proprio per queste ragioni, dal punto di vista antropologico risulterebbe ora difficile porre la partecipazione diretta alla vita politica come condizione di razionalità e di piena appartenenza alla comunità.

Non è infatti difficile capire che tale concezione della politica si basa sull’esperienza di gruppi sociali in cui la differenziazione era minima, ed è destinata a entrare in conflitto con le caratteristiche precipue delle società industriali moderne. Queste ultime sono infatti caratterizzate da una differenziazione assai accentuata delle funzioni sociali, da un grado elevato di pluralismo etico e cognitivo (il politeismo dei valori messo in luce da Weber), e da una crescente distacco degli individui rispetto dalle tradizioni e alle credenze collettive. Ecco quindi manifestarsi la perdita di centralità del sistema politico rispetto agli altri sotto-sistemi fondamentali che compongono la società. Ne segue che il sistema politico, lungi dal rispecchiare e la totalità dell’esperienza sociale, diventa un sotto-sistema accanto a molti altri (quelli economico, scientifico, tecnologico, religioso, etico, etc.). Perciò ogni tentativo di ridare al sistema politico la centralità e l’universalità che lo caratterizzavano nelle società antiche – e il marxismo è stato proprio un tentativo di questo tipo – è destinato al fallimento.

Si può rispondere a queste considerazioni – in parte giustificate – che la differenza tra liberalismo e marxismo è invece grande, e risiede nel fatto che il secondo è un sistema concettuale chiuso e destinato alla decadenza quando i suoi assunti di base vengono contraddetti dalla pratica quotidiana, mentre il primo è un sistema aperto (o, ancor meglio, è un “metodo”), in grado di auto-emendarsi senza tregua. In altre parole, il liberalismo può vantare capacità di adattamento all’ambiente e alle mutevoli circostanze storiche che il suo antagonista non possiede. Ciò deriva dalle differenti antropologie filosofiche che li sottendono: da un lato un’antropologia che pone il concetto di “limite” al centro del proprio edificio speculativo, dall’altro una concezione degli esseri umani che vede proprio nel superamento – illusorio – di ogni limitazione tanto la propria ragion d’essere quanto la chiave per modificare l’ordine esistente.

Featured image, Joseph Alois Schumpeter.

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