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Il decreto sulle cosiddette “liberalizzazioni”, varato dal Governo Monti, esce dalle aule del Senato abbastanza stiracchiato dalle fortissime pressioni delle lobby, mai uscite così prepotentemente allo scoperto nel corso della vicenda parlamentare, e verso le quali appare più facile elargire concessioni rispetto a riottosi valligiani, capaci di mettere in pericolo un “fantomatico” ordine pubblico.
L’aspetto che intendo esaminare, in quest’occasione, riguarda però la “filosofia” del provvedimento, espressa nella relazione che lo accompagna.
Emergono sei punti che, per economia di discorso, riassumo per punti (sempre disponibile a discutere con chi intendesse approfondire):
1) Nella relazione (e di conseguenza nel provvedimento) manca totalmente l’idea di un piano industriale e di un intervento pubblico riguardante le criticità infrastrutturali più gravi: trasporti, assetto idrogeologico, recupero dei grandi centri urbani, ecc,ecc;
2) L’economia del Paese appare quasi totalmente delegata ai servizi (sulla scorta del clamoroso errore commesso negli anni’80 dall’IRI guidata da Prodi) che sono al 70% del PIL. Non emerge nessuna idea di spostamento verso la produzione di beni;
3) Non è tenuta in nessun conto la gravità del fenomeno della diseguaglianza sociale e, con uno vero e proprio intollerabile “snobismo” da ricchi s esalta una competitività soggettiva filosoficamente intesa quale vero e proprio “darwinismo sociale”;
4) Non esiste nessuna idea di ritorno a un controllo democratico, attraverso il ruolo degli Enti Locali e la loro capacità di rappresentanza sociale;
5) La fiducia nel cosiddetto “mercato” appare assolutamente cieca e ideologica, al limite di un’apparente (sottolineo apparente) “ingenuità”;
6) Sottovalutazione complessiva degli effetti della crisi sull’effettiva disponibilità economica (si veda la vicenda degli ammortizzatori sociali e dell’eventuale, non auspicabile, riforma del mercato del lavoro) mantenendo ancora il PIL quale unico metro di misura e riferendosi esclusivamente a fonti bancarie (in questo senso, nel concreto, questo è proprio il governo delle banche).
Questi sei punti indicano alla sinistra la necessità di una forte e coerente opposizione complessiva che parta da un altrettanto forte mobilitazione sociale.
Il quadro complessivo ci indica, inoltre, l’assoluta incapacità delle forze politiche della sinistra italiana di collegarsi efficacemente alla lotta che si sta sviluppando per contrastare il disegno liberista di distruzione del modello sociale europeo(si guardi, ad esempio, la battaglia elettorale in Francia e le posizioni del Partito Socialista Francese) e , ancora, il dato del disfacimento del nostro quadro istituzionale e del sistema dei partiti: quadro istituzionale reso precario dal fallimento di alcune grandi opzioni sostenute nel primo decennio degli anni 2000 (federalismo: una vera e propria “bufala”; separazione tra politica e amministrazione: i dati sono sotto gli occhi di tutti, principalmente attraverso la costruzione di una “casta” di dirigenti super-pagati, inamovibili, fuori da ogni competizione che sia quella selvaggia, tra di loro, per prebende e potere; personalismo che ha corroso i partiti, soprattutto attraverso il meccanismo delle elezioni dirette negli Enti Locali, causa della crescita delle spese e della creazione di veri e propri “potentati” a destra come a sinistra; presidenzialismo; forma strisciante, ormai non troppo, e assolutamente pericolosa, ormai “border line” con l’espressione di forme di tipo “gaullista”).
La risposta non può essere un “governissimo” pilotato da chi non si è mai confrontato con l’opinione pubblica e l’elettorato, magari rilanciando chi “ben conosciamo” verso la Presidenza della Repubblica.
Al PD, partito che potrebbe rappresentare comunque l’architrave per una possibile alternativa, va posto l’interrogativo di fondo: uguaglianza o darwinismo sociale?
Savona, li 3 Marzo 2012 Franco Astengo
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