La sedia era dura, fredda e di paglia intrecciata, tenevo le gambe accavallate e nervosamente il piede si muoveva. Il mio viso invece, doveva apparire calmo e accondiscendente. Certo,con tutto quell’impegno che all’apparenza stavo mettendo davanti al mio interlocutore… “Una questione da sbrigare… vieni e ci accordiamo.” Queste erano state le sue parole al telefono. Avrei evitato, a volte il tempo non ha più senso spenderlo per le battaglie perse. Il problema è proprio credere che sia una battaglia e illudersi che qualche briciola dalla guerra se ne possa cogliere, bene o male. Lì in quello schifo di fanghiglia, tra parole immaginate che arrivavano sputate in faccia, lì un tavolo ci separava ma la distanza era paradossalmente maggiore. Due menti che non s’incontrano, due dimensioni di significato sconosciute tra loro. L’accordo era fattibile, ma io quelle condizioni potevo accettarle solo in parte.
La mia calma stava facendo innervosire la parte vera di me stesso, quella che non sopportava che dessi spazio anch’io all’ipocrisia. Le ferite iniziarono a toccarmi nel profondo, affermazioni taglienti come lame. I veri aguzzini non sono quelli con l’ascia in mano ma chi ti rende capro espiatorio dei suoi raconcori, sofferenze e colpe. Le mura della stanza erano grigie, il freddo mi arrivava fino al midollo e il vomito mi saliva in gola. Lui sparava veleno, dettava legge con gli occhi vuoti. Nulla è più disarmante del non intravvedere niente nello sguardo dell’altro, nè odio, nè bene. In quella finta calma credo che i miei occhi stessero diventando come i suoi…
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