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Il primo segno é l'editoriale de La Presse, il principale quotidiano del paese, che mi danno in aereo. Non é piu' l'elenco affastellato di frasi fatte tipo "le pays rélève les défis" con i richiami alle "réformes dans la continuité", oppure ancora i riferimenti ossessivi alle scelte sempre "judicieuses" del Presidente infallibile. L'editoriale di oggi parla della decisione di un tribunale di dissolvere l'RCD, il partito-padrone che ha gestito il paese dall'indipendenza ad oggi. L'analisi alterna considerazioni giuridiche a conseguenze politiche, qualcosa di mai visto prima. I periodi sono lunghi, il ritmo lento, la lettura meccanica, ma non si puo' pretendere di piu': prima si libera il pensiero e poi la sintassi.
Révolution é la parola inevitabile in ogni conversazione, da quella con il tassista scroccone (ci sono cose che neanche i terremoti riescono a cambiare) alla gente per strada. Si parla di rivoluzione ma l'immagine della città é di ordinaria quotidianità e non c'é dialogo che non si concluda con una frase del tipo "ora c'é bisogno di stabilità". Questo non né il 68, né la Russia del 1917. Questa é la rivoluzione piu' moderata della storia: dopo la fiammata imprevedibile e incontrollabile scatenata dai disperati delle regioni del centro, é la borghesia urbana - quella che criticava Ben Ali sottovoce e solo tra amici fidati - a guidare la transizione: merci beaucoup pour vos efforts, à partir de maintenant on gère.
Avenue Bourghuiba, il viale centrale di Tunisi, é affetto da schizofrenia acuta. Ci sono i blindati, le jeep con le mitragliatrici, il filo spinato, i soldati con il giubbotto anti-proiettile e l'elmetto, con il kalashnikov a tracolla. E a pochi metri i caffé debordano di gente che beve, fuma, parla e guarda il culo alle ragazze. C'é qualche barba piu' di prima, in stile neo-salafita, ma gli occhi di tutti guardano molto piu' Parigi che la Mecca. Ci sono ancora vetrine rotte, ricordo della battaglia urbana, qualche venditore irregolare in piu'. Ma quello che impressiona veramente è quello che non c'é piu': nessuna traccia della gigantografia di Ben Ali con il suo faccione da Shrek e i capelli neri corvini, con un ghigno che voleva essere un sorriso.
Il sabto sera, alla residenza dell'ambasciatore brasiliano con vista sul mare, c'é una festa di carnevale. La scena sembra uscita pari pari dal romanzo "Cronaca di un misantropo umanitario", capolavoro incompreso di sarcasmo. La moglie dell'ambasciatore é vestita da donna araba, mentre nel mucchio si trovano i grandi classici: l'infermiera, il prete e l'uomo vestito da donna. C'é anche l'incredibile Hulk.
Un uomo dalla faccia da diplomatico, in completo blu e papillon, ha l'aria perplessa. Forse si aspettava la solita reception fatta di tartine immangiabili e conversazioni prevedibili durante la quale la comunità diplomatica si autoconvince della propria utilità, benché marginale. Si è senza dubbio sbagliato.
Attorno a me qualche faccia conosciuta, rispettabili professionisti con cui - in un tempo non cosi' lontano - ho giocato a calcio, a carte oppure ho passato serate simili, immancabilmente iniziate con una sensazione d'inguaribile tristezza e poi finite a ballare abbracciati alle colonne del porticato.
Ed é cosi' che finisce anche questa sera, con una tempesta di vento a scuotere gli eucalipti della nuova Tunisia liberata e la samba che ci riporta tutti da dove veniamo, o siamo stati o vorremmo essere: le bianche spiagge di Ipanema.
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