“Ho iniziato a giocare a rugby perché sapevo muovere le mani. E questo ha cambiato il mio destino”. La storia comincia così. Ed è la storia di un guerriero, prima ancora che di un atleta. Uno che in mischia ci si è tuffato una volta, e da allora non ha più voluto uscirne. Marco Bollesan, terza-linea centro. Il Numero Otto, una leggenda di questo sport. Quarantasette presenze con la maglia azzurra e 164 punti di sutura. Due scudetti vinti da giocatore. Poi il timone della Nazionale e quello di tanti club. Un girovagare per l’Italia sempre in cerca di zuffe e di nuove sfide, partendo e tornando da Genova. Settant’anni con una palla ovale in mano e nessuna intenzione di mollarla. Il Guerriero si racconta per la prima volta in una appassionante biografia scritta con il giornalista – ed ex pilone di serie A: un altro pittosto solido, insomma – Gabriele Remaggi: “Una meta dopo l’altra” (Limina, 142 pagine, 16 euro), che è un inno e una preghiera al rugby ed alla vita. Perché non finiscano mai.
“Un amico, uno di quelli con cui facevo a botte, avrò avuto diciassette anni, dopo quella rissa gigantesca mi disse di venire su al Carlini con lui, e provare questo gioco che poteva fare al caso mio, e non sapevo manco cosa fosse”. L’infanzia difficile, il dolore per la lontananza dei genitori, il rischio di prendere delle brutte strade e poi quello strano incontro. “Però mi era piaciuto. Mi piaceva placcare, inseguire gli avversari, imparare le regole - se c’erano -, quelle scritte e quelle no. Mi piaceva il corpo a corpo, strappare il pallone e se non era il pallone era la testa, era lo stesso. Mi piaceva fare su un campo quello che facevo già per la strada, più o meno. Mi piaceva, e mi era utile, scaricare tutta la rabbia che avevo dentro”.
Bollesan è la storia del rugby: i tricolori d’un soffio con il…
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