Libri e colori: anche l'occhio vuole la sua parte...
Vi siete mai chiesti che tipo di lettore siete? Con quale criterio scegliete i libri da leggere?
Siete un “autore-compulsivo”, uno di quelli che legge in serie tutti i libri di un certo Pinco Pallo per scoprirne le diverse sfumature e stilare poi classifiche di gradimento? Vi riconoscete forse nella categoria del “genere-compulsivo”, per il quale le librerie sono un arcipelago ampio nel quale cercarsi un unico atollo per stare al sicuro? Vi piace seguire i consigli dei blog, le classifiche o le opinioni degli intellettuali di grido e fare shopping di libri solo dopo aver stilato una lista precisa degli acquisti, ordinata secondo un criterio di priorità? O siete piuttosto uno “speleologo culturale”, uno di quei lettori che entra in libreria come in una grotta da esplorare; un vero “esteta da bancarella”, uno di quei lettori che si lascia guidare dal suo istinto, affidato, di volta in volta, a dettagli puramente casuali: l’immagine di copertina, le poche righe di un incipit, una stringa di parole estratta da una pagina aperta a caso.
Io, per esempio, sono un lettore di quest’ultimo tipo.
Se le mie letture “di lavoro” rispondono spesso a necessità di colmare lacune, approfondire questioni irrisolte, incamerare informazioni su materiali nuovi e vecchi, le mie letture di piacere s’indirizzano, al contrario, a soddisfare una prepotente, famelica, forse anche ingiustificabile vena estetica. Il suono di una parola del titolo, un inizio prorompente, una frase letta aprendo il libro a una pagina qualsiasi capace di suscitare un’emozione, smuovere un ricordo, solleticare la curiosità. Il libro funziona per me come una tazza di guaranà, deve essere in grado di produrre uno stato di eccitazione estatico-creativa.
Proprio a proposito di libri, negli ultimi tempi ho fatto una scoperta davvero strabiliante: aggiornando la mia biblioteca virtuale e rispolverando quella cartacea, ho potuto costatare che gran parte delle mie scelte di lettura sono determinate da un’evidente eppure oscura scelta cromatica.
Avete mai pensato di guardare la vostra libreria per scoprire quel è il colore preponderante? Provate a farlo, ne verranno fuori cose davvero interessanti. Guardando la mia, infatti, ho scoperto di avere in casa una gamma completa di sfumature che vanno dal panna all’ocra. I marroni sono merce rara, per lo più cose di lavoro, libri consigliati o regali. I grigi sono prevalentemente manuali, i classici must-have e i blu... I blu sono quasi tutti stati una semi delusione.
Mi chiedo se tutto questo abbia un senso.
Ho anche scoperto che spesso scelgo i titoli rispetto alla foto di copertina. Che non si pensi a un qualsivoglia criterio estetico nella qualità della fotografia, della grafica o dell'illustrazione. Parlerei piuttosto di associazioni casuali e, per spiegare cosa intendo, sarà forse meglio rifarsi a un esempio pratico che mi ha fatto capire, o forse confermato, qualcos’altro del mio rapporto con la lettura. Sono una lettrice dai gusti irrimediabilmente grotteschi e, stranamente, questa tendenza di gusto non sembra essere del tutto estranea alla questione del colore di copertina.
Pochi mesi fa, mentre gironzolavo in libreria in attesa di un treno, ho acquistato due libri. Il primo (grigio) con una foto di una vasca da bagno dalla quale spuntavano le ginocchia di due individui. L’immagine mi aveva riportato alla memoria, con le dovute differenze, un quadro di Jacques-Louis David, Marat assassinato, a sua volta legato alla memoria di un dramma di Büchner, La morte di Danton. Un testo tatrale di cruciale importanza per il brillante risultato del mio esame di Letteratura Tedesca III.
Pochi passi più in là, sulla copertina (bianca e arancione) di un altro libro, nella foto di un pollo appeso a una corda (non me ne vogliano i miei amici animalisti) trovavo invece la risposta alla domanda che ogni giorno attanaglia milioni di massaie in tutto il mondo: cosa preparo per cena? La mia scelta emozionale era fatta.
Ho preso da un terzo scaffale un testo di critica letteraria, senza badare tanto ai colori (blu) e nemmeno alle foto di copertina (nessuna): era un libro di lavoro che non ammetteva sesti sensi, vezzi e flussi di coscienza.
Ho letto il mio tesoro grigio-bianco-arancio con grande interesse e voracità e ho scoperto che, nonostante le differenze cromatiche e imagologiche, si trattava di testi dal contenuto molto simile.
Prendi una storia. Una storia che abbia il sapore dei giorni nostri: metti un ragazzo disadattato per via di una famiglia allo sfascio, in balia delle psicosi di due genitori snaturati. Metti che questo ragazzo vada in terapia, condisci il tutto con la scoperta di essere gay e il disagio di trovare qualcuno al mondo che ti comprenda, che capisca esattamente quello che sei senza che tu debba necessariamente spiegarlo. Ecco in breve la trama del libro grigio, Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, e del libro bianco-arancio, Augusten Burroughs, Correndo con le forbici in mano.
La grande differenza? Il primo narrato con un ordine, un’eleganza, uno stile e un’ironia perfetti al punto di diventare stucchevoli, il secondo – un’autobiografia – narrato con un accumulo, un sarcasmo, una spontaneità tale da sembrare anche ingiustificatamente cruda. Eppure i miei gusti decretano il bianco come libro vincente. Il suo prosodiare roccocò, pieno di digressioni e particolari, quella sua lingua schietta, affilata e non necessariamente raffinata, appaga la mia curiosità morbosa e la mia fame di carta e inchiostro. Che ci sia davvero un rapporto direttamente proporzionale tra il colore delle copertine e la percezione che ho del loro contenuto?
L’uscita della versione cinematografica del romanzo di Cameron, che a dispetto delle critiche entusiaste, ho etichettato tra le mie letture come uno dei libri a mio avviso più sopravvalutati della storia, mi ricorda l’uscita della versione cinematografica di Correndo con le forbici in mano, di qualche anno fa. Già solo il trailer delle versioni cinematografiche dei due romanzi la dice lunga sulle differenze nella resa di una storia comune e apre lo scenario alle differenze stilistiche, alle differenze nella produzione di pathos e alle questioni biografiche indissolubilmente legate, per ciascuno degli autori, alla stesura del proprio romanzo.
Chi ha avuto modo di leggere entrambi i testi potrà forse obiettare che Burroughs sembri farsesco, che la sua prospettiva narrativa sia alquanto ridondante ed esagerata, ma devo ammettere che preferisco questa crassa prosa finto nazional-popolare all’elegante perbenismo di Cameron. Alla mia percezione di lettrice il suo stile così terribilmente “perfetto” appare irrimediabilmente piatto e grigio, esattamente come il colore di copertina.
Che esista o no un vero e proprio legame tra i contenuti dei libri che mi piacciono e il colore delle loro copertine rimane un mistero, ma mi piace pensare che lo strano istinto cromatico che mi guida nella scelta abbia fatto cilecca poche volte, e che questa statistica bislacca continui a regalarmi piacevolissimi momenti di puro edonismo estetico-intellettuale. E poi, in fondo, a pensarci bene, nella mia bella libreria di legno laccato bianco, la copertina bianco-arancio di Burroughs si addice molto meglio dell’anonimo grigio di quella di Cameron. Vi sembra un elemento da trascurare?
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