Potrei commentare questo libro con poche, concise parole: è il romanzo più difficile che abbia mai letto. Fine della recensione. Ma neanche un ermetismo spinto all'Ungaretti basterebbe a far intravedere la radicale complessità che sta dietro Il dono di Vladimir Nabokov, un romanzo in cui sostanzialmente non accade nulla eppure che mi ha richiesto quasi due mesi di notti per terminarlo.
Imbarcarsi nella lettura de Il dono dopo Storia di una ladra di libri non è stata un'idea brillante: passare dal fraseggiare ai limiti della prima scolarizzazione di Zusak alla logopoiesi spinta di Nabokov è stato un bel salto, un po' come passare dal Gordon's all'Hendrick's!
Il dono è uno degli ultimi romanzi scritti in russo da Nabokov e fu pubblicato a capitoli su un quotidiano di Berlino dove all'epoca viveva lo scrittore. Io ho letto la traduzione del 1991 di Serena Vitale, ovvero la versione ottenuta direttamente dal russo. L'edizione 'storica' del 1966 era stata tradotta da Bruno Oddera dalla versione in inglese derivante dall'originale in russo e tradotta da Dmitri Nabokov (figlio dell'autore) e Michael Scammell con revisione finale di Nabokov stesso. Questo particolare potrebbe risultarvi del tutto superfluo ed invece ha un peso essenziale: quando un libro è giocato interamente sul sofisticato uso delle parole, del senso delle figure retoriche, delle paronomasie, è vitale la traduzione che ne viene fatta (poiché, ahimé, ancora non so leggere dal russo). Concorderete con me che tradurre un testo da una traduzione accumula massicce perdite linguistiche e poetiche (il cosiddetto lost in translation con cui chi ha effettuato traduzioni dal Latino e dal Greco, ma anche banalmente da una lingua contemporanea, ha senz'altro avuto a che fare). Per i motivi di cui sopra non posso purtroppo effettuare un confronto con l'originale, ma posso assicurarvi che la signora Vitale ha fatto un lavoro eccelso, riuscendo nell'arduo compito di regalarci uno dei romanzi linguisticamente più complessi che io abbia mai letto.
La storia è caratterizzata da pochi, gracili eventi: un giovane scrittore russo che vive a Berlino; la comunità di letterati russi fervidamente attivi nella città; un padre raffinato intellettuale appassionato di entomologia; una timida storia d'amore con la figlia della pensionante; una polemica biografia di un eminente personaggio della rivoluzione russa... et voilà, ecco qui tutta la storia! Nessun intrigante intreccio, nessun avvincente coup de théâtre. Proprio per questo motivo è un libro che sconsiglio vivamente a chi ama storie complicate e di immediata fruizione. Ci vuole una grande pazienza per leggere un romanzo come Il dono: ci vuole attenzione per non perdere il filo del discorso durante i viaggi mentali di Fëdor Gordunov-Čerdyncev, protagonista della vicenda, un personaggio introverso e semplice nelle sue abitudini, ma soprattutto ci vuole attenzione per non perdere la bellezza delle sfumature del linguaggio, le indimenticabili espressioni di cui il libro è letteralmente pieno:
Io ho un'abitudine che farà inorridire qualche igienista della lettura: sottolineo i libri. E non solo! Faccio anche l'orecchia alla pagina in cui ho effettuato la sottolineatura per ritrovare più velocemente l'espressione che mi ha colpito! Ebbene sì, sono una deturpatrice di libri. Ma preferisco pensare che si tratti semplicemente del mio modo di amarli, di manifestare il mio indice di gradimento: un buon libro può avere fino a cinque o sei orecchie. Il dono è stato un caso unico (e temo irripetibile): ho praticamente segnato una pagina ogni tre o quattro. Mi è capitato di dover addirittura fare due orecchie alla stessa pagina a causa di troppi passaggi da contrassegnare! Il potere della padronanza della lingua sta nell'avere la capacità di esprimere un concetto; il potere del talento sta nel sapere esprimere un concetto banale in termini facilmente intuibili ma di esasperata bellezza ed è proprio questo il discrimen tra lo scrittore e l'artista. Forse è un retaggio (da me molto amato) degli studi classici, ma non riesco a non amare l'autarchia della forma; mi è irrinunciabile apprezzare la bellezza della modalità in cui un concetto viene espresso, nonostante la sua scarsa presenza di contenuto o di contenuto banale. Non sempre la sostanza ha la supremazia sulla forma e questo romanzo ne è un continuo e martellante esempio.
Ripeto, è un libro difficile. E, come sottolinea la postfazione di Serena Vitale, non è facilmente fruibile dal grande pubblico. Non ho la narcisistica supponenza di pretendere di averlo capito appieno, in quanto è così massicciamente intessuto di citazioni e riferimenti alla letteratura russa (da Puškin a Dostoevskij, solo per citare i due esempi più facili) che può essere realmente apprezzato probabilmente solo da un docente di letteratura russa, appunto. Tuttavia a chiunque abbia una blanda dimestichezza col romanzo russo come me ed una forte passione per la lingua e la bellezza della poetica prosastica è sicuramente un'esperienza da provare che non deluderà nonostante l'impegno richiesto.