Proponiamo un estratto da “Non ci lasceremo mai” di Federica Tuzi (Lantana editore): il libro - che racconta il viaggio on the road di una ragazza che, decisa a cambiare sesso, troverà la sua dimensione - sarà presentato giovedì 26 maggio alle 18.30 al Chiaja Hotel De Charme di Napoli (via Chiaia 216, primo piano).
tabacco. «Semmai ho bisogno di smog, di macchine, di gente che beve nei locali…»
Per un attimo presagii il peggio, ma poi mi lasciai trascinare di città in città lungo la Interstate 25: saltammo la riserva indiana di Wind River («fuckin’ tourists», la definì lei) e i bagni caldi di Thermopolis («fuckin’ smells»), per filare dritte a Cheyenne e da lì proseguire fermandoci a Laramie, Sinclair, Rock Springs, Evanston, fino all’incredibile Salt Lake City. A dire il vero, tutto era un po’ incredibile in quei giorni, mi sembrava di essere precipitata nella pellicola di Thelma e Louise. Il West era la cosa più cinematografica, più fedele a sé stessa, più vasta che si potesse immaginare, incluse le balere con la musica country.
Ci fermavamo in ogni tappa una sola notte, quasi sempre nelle grandi camerate degli ostelli sparpagliati lungo il vecchio West. C’era un rituale notturno che seguivamo senza averlo concordato: ci infilavamo ognuna nel proprio letto e dopo un po’ lei arrivava, a piedi nudi, con la mia t-shirt nera che le copriva le ginocchia. Erano letti che scricchiolavano al minimo movimento, così stavamo ferme più che potevamo muovendo solo le nostre mani. Spesso gliele mettevo sulla bocca: «Ssh, non gridare».
Era bello sentire il suo corpo caldo avvinghiato al mio, non distinguere più il battito dei nostri cuori, la frequenza del respiro,sudare come matte in quelle camerate senza aria condizionata e piene di gente che russava. Elisabeth aveva un modo tutto suo per venire: contraeva le cosce intorno alla mia mano e tratteneva il respiro per poi esplodere all’improvviso e distendere tutti i muscoli insieme. Io non ci riuscivo sempre, quella promiscuità mi imbarazzava. Ma lei la prendeva come una specie di missione, come una doppia prova: del mio amore e della sua bravura. Ce la metteva proprio tutta, e poi ci giravamo dall’altra parte e ci addormentavamo con i culi appiccicati.
Il giorno dopo non sapevamo mai che cosa fare, così andavamo in giro e chiedevamo un passaggio dietro l’altro, felici più di partire che di giungere in qualsiasi luogo. L’unica certezza
della giornata era la colazione: mangiavamo così tanto che a Elisabeth veniva una pancia da donna incinta e sembrava lei il vero camionista, soprattutto quando tirava su la canottiera e si batteva il ventre come un tamburo. Ma nel giro di due o tre ore tornava a essere la ragazzina filiforme che era sempre stata e, di lì a poco, aveva di nuovo fame.