Quando mi chiedono in che anno sono nata, rispondo. Perché ritengo scontato mentire – ci si aspetta che le donne non dicano la verità. E nemmeno i giovani, a meno che non ostentino il privilegio della loro età per trarne beneficio. Alla gioventú si perdona piú volentieri l’errore, la presunzione e il coraggio. E io detesto il determinismo della biologia. Chi mi interroga inoltre non sa che considero ogni anno della mia vita un miracolo, e me ne vanto. Però rispondo a modo mio.
Sono nata nell’anno del cavallo, dico. Secondo l’oroscopo cinese i nati sotto il segno del cavallo sono ribelli che non sopportano costrizioni, parlano molto e non hanno il senso del tempo. Amano viaggiare – criniera al vento. La criniera ce l’ho, e anche il carattere imprevedibile e l’impazienza dell’equino, il resto pure. Ma vorrei possedere la geniale stupidità del cavallo da corsa, di cui favoleggia mia nonna, la capacità irresistibile di puntare verso il traguardo.
Altre volte dico: sono nata nell’anno dell’unione monetaria. Perché mi sento cittadina di questo vecchio continente, anche se ho aperto gli occhi da un’altra parte del mondo. È l’anno in cui si è realizzato un sogno, che sarebbe sembrato un’utopia di matti fino a poco tempo prima. E poi mi sento nuova come l’Europa, e chiamata a costruire un mondo diverso da quello che mi ha preceduta.
Altre volte ancora dico: sono nata nel 1423. E ogni volta dico la verità. Perché alcuni anni fa, quando frequentavo la terza elementare, ho fatto una scoperta che mi ha lasciata di sale. All’inizio dell’anno scolastico, arrivò in classe un nuovo alunno. Scuro di pelle, timido e però altero, non parlava l’italiano. La maestra gli ordinò di sedersi accanto a me. Me la sono sempre cavata piuttosto bene con la lingua italiana e lei mi considerava ideale per fargli da guida. Il ragazzino si chiamava Khalil. Era pakistano. Lui visse come una degradazione l’avere per tutrice una femmina e solo dopo qualche settimana mi rivolse la parola. E fece crollare il mio mondo. Mi disse che non vivevamo nel 2009, ma nel 1430.
Quando chiesi spiegazioni a mio padre, mi disse che il mio compagno contava gli anni in un modo diverso. Lui, come tutti i musulmani, dall’Egira di Maometto. Noi dalla nascita di Cristo. Poiché mio padre – Giose, intendo – era ateo, questa rivelazione mi lasciò senza parole. Dunque può essere vera anche una cosa in cui non credi.
Ma insomma in che anno viviamo? gli chiesi. Nel 2009 e nel 1430, rispose mio padre. E anche in tanti altri anni. I popoli della terra credono in cose diverse, non usano lo stesso calendario. Gli ebrei contano gli anni dalla creazione del mondo. Gli indiani contano in un modo, gli aborigeni in un altro. Non è importante il numero – è solo un segno, una convenzione.
Dunque io vivevo in una finzione! Ero come un personaggio letterario? Magari! Sono dei privilegiati, quelli che esistono solo nei libri. Il loro tempo ha inizio ma non ha fine, è fermo ma scorre. Nascono, ma non muoiono, raggiungono un’età, ma non la superano. Se hanno vent’anni quando il libro finisce, possono vivere per sempre giovani, come i vampiri e gli dèi. A volte vivono nel presente – accanto a noi. Abitano i nostri stessi giorni. Le loro date segnano anche la nostra vita. Ciononostante il tempo scorre a velocità diverse per noi, che siamo qui e ora, e loro – che esistono solo nel mondo di carta della letteratura.
Se il mio qui e ora non esisteva davvero, se era una costruzione, fantasiosa come quella immaginata dagli scrittori per i loro personaggi, chi aveva immaginato il mio tempo? Chi era l’autore del libro che stavo vivendo?
Allora mio padre – Christian, intendo, perché era lui che ci spiegava queste cose – mi ha raccontato che aveva un nome e una storia. Ascoltatela: è anche il vostro autore.
Veniva dalla Scizia. Da una terra chiamata poi Dobrugia, abitata in gran parte da goti. Insomma, oggi sarebbe rumeno. Si chiamava Dionysius. Per cognome volle solo un diminutivo: Exiguus. Il Piccolo. Per umiltà. Perché era un uomo, e voleva lasciare gli aggettivi altisonanti a Dio.Studiò a Tomi, e ciò mi piace, perché Tomi è il luogo in cui, esiliato da Roma dall’ira funesta di Augusto, andò a morire Ovidio. È il mio preferito tra gli scrittori: mi piacerebbe essere uno dei personaggi delle sue Metamorfosi – una ninfa scontrosa, una sacerdotessa di Artemide, una dea – e mi piace pensare che abbia lasciato qualcosa della sua immaginazione alla sua ultima patria.
A dire di un testimone che lo conobbe, Dionysius Exiguus possedeva molte qualità: la semplicità, la cultura, la dottrina, l’umiltà, la sobrietà, l’eloquenza. Il mio obiettivo nella vita è possederne almeno qualcuna. Avrebbe voluto vivere da eremita come un mistico egiziano, ma era socievole, e passò la sua vita in mezzo agli altri. Avrebbe voluto restare a studiare nel suo monastero in Oriente, e lo chiamarono a Costantinopoli e poi a Roma, alla corte dell’imperatore e del papa. Avrebbe voluto digiunare come un asceta, ma frequentava i banchetti e le cerimonie. Era casto, ma apprezzava l’intelletto delle donne. Insomma era tollerante. Ma soprattutto era colto, coltissimo. E ciò mi piace. Sono di quelli che considerano la cultura l’unica ricchezza che si possa arrivare a possedere su questa terra. Era uno scrittore. E ciò mi piace ancora di piú, perché anche io sarò una scrittrice.
Però non scriveva romanzi né poesie. Del resto a quel tempo – dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente – non se ne scrivevano quasi piú. Inoltre era un monaco. Dedicò la sua prosa elegante a controversie teologiche, al diritto canonico, alle agiografie dei santi, all’oratoria. Un giorno, intorno alla fine del 496, dopo la morte di papa Gelasio, arrivò a Roma. E anche questo mi piace: Roma è la sezione dello spazio dove sono stata piú felice, e dove vorrei fermarmi. Non si sa se era giovane o già vecchio quando cambiò il tempo – per tutti.
In quel periodo, uno degli argomenti piú dibattuti era la data della Pasqua. Ogni comunità, in Oriente e in Occidente, la festeggiava in un giorno diverso. Stabilirne la data esatta era questione di vita o di morte. Era un’epoca in cui gli uomini si accusavano di eresia in nome di concetti metafisici come la natura del Verbo divino, la superiorità del Figlio, generato dal Padre e fatto da lui ma di sostanza diversa, o la trasmissione automatica del peccato originale, e si trucidavano per una parola o se credevano che l’uomo meritasse un destino senza essere preordinato a esso. Il primicerio dei notai della corte di papa Giovanni I incaricò Dionysius di risolvere la questione. Dionysius era un conciliatore. Voleva unire, mai dividere. Ebbe un’idea talmente semplice che dovette stupirsi che nessuno ci avesse pensato prima.
Per stabilire una volta per tutte quando cadeva la Pasqua, cioè la Resurrezione di nostro signore Gesú Cristo, bisognava stabilire la data della sua nascita.C’era molta confusione in proposito. I Vangeli non davano riferimenti cronologici precisi e citavano pochi personaggi e fatti documentati – Erode, il censimento di Augusto… E gli storici romani avevano annotato in ritardo la morte di un agitatore, un sovversivo ebreo crocifisso alla provincia dell’Impero.
Dionysius però era coltissimo, come vi ho già detto, e dopo studi accaniti e meticolosi fissò la data della nascita di Cristo. Per Dionysius Exiguus l’evento decisivo per la storia dell’umanità cadde l’anno 753 dalla fondazione di Roma.Poco dopo, questo piccolo immenso intellettuale morí. Era l’anno 242 – ma non il nostro 242. Affinché non vi prendano le vertigini, vi dico che in quel momento si contava il tempo dall’inizio dell’impero di Diocleziano (che per noi sarebbe il 284). Ma Dionysius ritenne che fosse ingiusto contare il tempo dall’acclamazione di un tiranno, per giunta responsabile di aver scatenato l’ultima tremenda persecuzione contro i cristiani. Perciò la sostituí con l’incarnazione del Redentore, che per lui, come per tutti i credenti, coincideva con l’esordio della speranza nel riscatto dell’umanità.
Come tutti gli artisti, gli scienziati, gli esploratori e la maggior parte degli scrittori, Dionisio il Piccolo non seppe di aver lasciato al mondo un’opera di valore incalcolabile. Qualche secolo dopo, si cominciò davvero in tutto l’Occidente a contare il tempo dall’incarnazione di Cristo (e poi dalla sua nascita), accettando il calcolo che aveva fatto lui, un uomo venuto da lontano, il cui corpo ormai era polvere nella ter- ra di Roma, ma le cui opere continuavano a essere trascritte e copiate nei monasteri d’Europa. E nel tempo inventato da Dionysius noi abitiamo ancora.
Inventato, sí. Immaginario, sognato, letterario. Perché Dionysius Exiguus aveva sbagliato i calcoli – non aveva a disposizione tutte le fonti necessarie. Biblisti, cronologi e studiosi piú attrezzati di lui ritengono che il tempo sia piú vecchio di sette o sei anni – dal momento che Gesú sarebbe nato il 7 avanti Cristo e non l’anno 1. Ne deriva che il 2013 non è il 2013, ma il 2020, il 2015 è il 2022, e cosí via.
Però che cosa importa? Ciò che è inventato spesso diventa vero. Sette anni sono caduti dalla storia – e non saranno mai vissuti. Come quei dieci giorni di ottobre del 1582, quando la riforma del calendario giuliano impose un’accelerazione al mondo, e gli uomini andarono a letto una sera e si svegliarono dieci giorni dopo.Cosí a me piace immaginare che vivo non qui e ora, in una frazione esigua e misera del tempo, ma nell’anno piú letterario di tutti. L’anno zero – quello che non esiste e non è mai esistito.
Perché Dionisio l’Esiguo non conosceva lo zero, che il matematico Fibonacci avrebbe rivelato agli occidentali solo molti secoli dopo la sua morte. Per Dionysius all’anno 1 avanti Cristo seguiva l’anno 1 dopo Cristo. Ed è in quell’an- no che nessuno ha mai vissuto che io voglio abitare – là dove vivono i personaggi dei romanzi che ho letto e che scriverò, quelli che esistono solo nelle pagine dei libri. Quelli che nascono ma non invecchiano, quelli che sono per sempre perché non furono mai.Eva Gagliardi