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Libro e moschetto

Creato il 02 novembre 2012 da Parmatre @parmatre

Il nostro affabile ministro “tecnico” dell’istruzione, che dall’alto della sua pluriennale esperienza in tutto tranne che nella didattica ha deciso di dare il suo fondamentale apporto alla distruzione della scuola pubblica, ha sentenziato che nella scuola secondaria di primo e secondo grado non si lavora abbastanza e che la prima e più importante cosa da fare è esportare in questi due ordine di scuola l’impianto orario della primaria, portando i professori da 18 ore di lavoro settimanali a 24. Certo lo scopo è nobile: risparmiare per poter investire le risorse recuperate in altro, magari i famosi tablet che il governo dovrebbe garantire uno per ogni aula scolastica, così da poter far compilare ai docenti il registro elettronico fortemente voluto dal dicastero dell’istruzione alla fine dell’estate.  Quel che manca però è un passaggio logico: se gli insegnanti lavorano di più, da dove salta fuori il guadagno? Semplice: gli insegnanti sono chiamati a lavorare di più a parità di stipendio. Ora, io non ho proprio voglia di stare a polemizzare se lo stipendio di un insegnante è congruo per gente laureata, spesso anche specializzata; né ho voglia di fare facili paragoni con un’Europa che i nostri politici si infilano e sfilano di dosso come un calzino a seconda delle opportunità del momento e della pancia, più o meno dolente, del proprio elettorato; e non ho neanche troppo desiderio di perdermi dietro alle sorti di questa proposta di legge, che dovrebbe far parte della legge di stabilità di prossima approvazione ma che forse è stata stralciata ma che deve ancora passare in commissione e che nessun partito vuole: a essere ottimisti, tutto si risolverà nella solita carnevalata all’italiana, con un clamoroso nulla di fatto ma con un sentimento di generale ripulsione nei confronti di questi insegnanti scansafatiche che avanza sempre più nell’opinione pubblica. Quello che mi interessa ora è capire come si sia arrivati a questo punto.

 Parlando a Genova dell’importanza del rispetto dei tempi nella pubblica amministrazione e in materia di semplificazione burocratica, il 9 ottobre Francesco Profumo si lascia andare a una riflessione: «Il Paese va allenato. Dobbiamo usare un po’ di bastone e un po’ di carota e qualche volta dobbiamo utilizzare un po’ di più il bastone e un po’ meno la carota. In altri momenti bisogna dare più carote, ma mai troppe». Non c’è che dire, forse non è proprio originale ma si tratta di un’ottima metafora che ben si addice alla bocca di chi rappresenta l’istruzione del nostro paese: se non altro è persona di cultura. Perché sono convinto che il ministro, forte della sua laurea in ingegneria e dei successivi titoli acquisiti, sa perfettamente di aver citato due personaggi storici di prima grandezza: quel Winston Churchill e quel Benito Mussolini che, da acerrimi nemici, erano tuttavia accomunati da un sostanziale disprezzo per gli italiani. Pare infatti che il riferimento al bastone e alla carota sia stato fatto prima da Churchill in due discorsi alla Camera dei Comuni nel maggio e nel luglio del 1943, in merito al modo in cui secondo lui andava trattato il popolo italiano; e ripreso poi nel 1945 da Mussolini, che aveva sempre tenuto in gran considerazione l’avversario, in una serie di articoli sul Corriere della Sera. Data la dotta citazione, è legittimo supporre che il ministro nutra per gli italiani la medesima considerazione già testimoniata settant’anni fa dai due statisti. O quantomeno è possibile ipotizzare tale sentimento nei confronti degli insegnanti che, da che mondo e mondo, sono poco amati da tutti. Soprattutto dai propri datori di lavoro.

 Profumo avrebbe avuto tutto il diritto di proporre una riforma della scuola – tanto più che non c’è governo che non ceda alla tentazione di tirare fuori dal cilindro la propria ricetta miracolosa: da Moratti a Gelmini, passando per Fioroni e i suoi colpetti di cacciavite, la scuola italiana è in fermento da almeno vent’anni. Ma si è ben guardato dal convocare le parti sociali, proponendo loro una sua visione della scuola e appellandosi, in periodo di crisi, ai docenti perché dessero il loro (ennesimo) contributo al superamento del momento congiunturale: questo sarebbe stato fare politica, e i nostri tecnici, eletti da nessuno perché mai si sono sporcati le mani con queste baggianate delle regole democratiche, non ne sono avezzi; molto meglio i colpi di mano. E infatti Profumo all’incontro preferisce lo scontro e fa sapere che gli insegnanti aumenteranno le ore di cattedra in cambio di niente. Prima si parla di 24 ore a partire dal prossimo anno scolastico poi, a seguito delle ovvie rimostranze di sindacati e insegnanti, il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi-Doria sposta il tutto all’anno scolastico 2014/2015. E da lì è tutto un inseguirsi di voci che danno variazioni di rotta, presunti passi indietro, rettifiche e contro rettifiche. Ad oggi, nulla è dato sapere di sicuro.

Profumo, quindi, fa un autentico colpo di mano facendo carta straccia di un contratto (tra l’altro scaduto dal 2006) e prendendo a pesci in faccia contemporaneamente insegnanti e sindacati. Davvero un bel modo di procedere. Ma in questa azione sordida, da “bullo di periferia” (come ha avuto modo di definirla, con felice espressione, una mia collega), Profumo ha avuto dei complici.

Il primo risponde al nome di Renato Brunetta, fino al 16 novembre 2001 ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione. Con il DL 150/09, meglio noto come “Decreto Brunetta”, l’allora ministro ha modificato il decreto legislativo 165/2001 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, spianando così la strada alla legge di stabilità 2012, ultimo atto dell’agonizzante governo allora in carica. Il comma 4 dell’articolo 16 della legge di stabilità 2012, infatti, recita che «nei casi  previsti  dal  comma 1 del  presente  articolo il dirigente  responsabile  deve  dare  un’informativa  preventiva  alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto o area». Ed ecco come, con un colpo di penna, la concertazione nel pubblico impiego viene gettata nel cestino e sostituita con una comunicazione. Scopriamo così che lo zelante Profumo applica alla lettera una legge voluta dall’ultimo governo Berlusconi. E quindi nessuno può accusarlo di essere al di fuori della legge. C’è però da chiedersi se la legge è giusta in sé e, utilizzando parametri che certo non sono giurisprudenziali, verificare se non sarebbe più corretto astenersi da (e magari cambiare) una legge che dà troppo potere al datore di lavoro (che sia lo Stato o un privato non cambia). Ognuno darà naturalmente la risposta che preferisce, ma sia chiaro che tale risposta non è scontata solo perché Profumo è corretto in punta di diritto: perché, in nome del diritto, nella storia si sono commesse tali atrocità da far impallidire i più cinici, salvo poi riconoscere, e sempre a posteriori, che per quanto legali tali azioni non avrebbero dovuto ritenersi lecite. Se qualcuno ha dei dubbi, vada a rileggersi Antigone – a meno che non consideri Sofocle un pericoloso comunista al soldo del Fatto quotidiano.

Accanto alle leggi di destra (ovviamente) varate da un governo di destra e (altrettanto ovviamente) applicate da un altro governo ma sempre di destra, ci sono taluni giornalisti che in questo specifico caso si sono distinti per la loro disinibita propensione a farsi grancassa mediatica della politica del governo, senza mai (o quasi) verificare le sciocchezze dette dai suoi portavoce e quindi senza mai fare quello che un giornalista dovrebbe per definizione: smascherare la menzogna. Infatti per giustificare un’azione che, per quanto legale, è sembrata una porcata un po’ a tutti (tanto che i partiti hanno subito preso le distanze da Profumo) il governo ha sostenuto tutta una serie di inesattezze, quando non vere e proprie falsità. La prima (e clamorosa) è stato giustificare l’aumento delle ore con l’esigenza di risparmiare. In realtà lo stesso Profumo ha fortemente voluto un nuovo concorso per insegnanti (anche per quelli già abilitati all’insegnamento) osteggiato da tutti gli addetti ai lavori per diversi motivi. Senza considerare i soldi spesi, è palese la contraddizione tra il concorso, che dovrebbe garantire il posto di ruolo ai vincitori, e la perdita di posti di lavoro, esito inevitabile nel momento in cui un insegnante passa da 18 a 24 ore di cattedra. L’eventuale risparmio ottenuto proprio dalla possibilità di non usare supplenti per gli spezzoni di cattedra avrebbe quindi un costo sociale elevatissimo, gettando nella disoccupazione i precari e probabilmente anche molti vincitori del prossimo concorso, proprio in un momento in cui la stampa registra 2,8 milioni di disoccupati: un’idea ben bizzarra del risparmio. Una seconda menzogna clamorosa è quella secondo la quale questa riforma metterebbe gli insegnanti italiani in media con i colleghi europei. In realtà le 18 ore di lezione frontale sono perfettamente in linea con la media della UE: «In media» riporta la Repubblica del 28 ottobre, in Europa si registrano «18,1 ore settimanali per i docenti di scuola media e 17,6 per i colleghi delle superiori. Le 24 ore settimanali di insegnamento inserite nel disegno di legge di Stabilità non sono contemplate in nessuno dei 34 paesi europei presi in considerazione da Eurydice e collocherebbero l’Italia al primo posto in assoluto». In compenso la retribuzione media europea è decisamente superiore a quella italiana. Ma di questo, se si fa eccezione per pochi quotidiani, non ha parlato nessuno. Una terza stupidaggine contro la quale mi risulta che nessun giornalista titolato ha sentito la necessità di levare la voce è quella secondo cui l’orario di lavoro degli insegnanti è di 18 ore settimanali, quando questo è l’orario di cattedra, che è un concetto ben diverso. Il comma 4 dell’art. 28 del CCNL prevede infatti che «gli obblighi di lavoro del personale docente sono articolati in attività di insegnamento (le 18 ore, ndr) ed in attività funzionali alla prestazione di insegnamento» che il successivo art. 29 definisce come «tutte le attività, anche a carattere collegiale, di programmazione, progettazione, ricerca, valutazione, documentazione, aggiornamento e formazione, compresa la preparazione dei lavori degli organi collegiali, la partecipazione alle riunioni e l’attuazione delle delibere adottate dai predetti organi. 2. Tra gli adempimenti individuali dovuti rientrano le attività relative: a) alla preparazione delle lezioni e delle esercitazioni; b) alla correzione degli elaborati; c) ai rapporti individuali con le famiglie». Il CCNL si preoccupa di quantificare in 80 ore per anno scolastico (33 settimane di lezione) solo le ore da dedicare alle attività funzionali di tipo collegiale. Ora, facendo due conti della serva, se alle 18 ore aggiungiamo l’ora di ricevimento parenti (attività funzionale all’insegnamento), i 90 minuti settimanali in ossequio al comma 5 del già citato art. 29 («per assicurare l’accoglienza e la vigilanza degli alunni, gli insegnanti sono tenuti a trovarsi in classe 5 minuti prima dell’inizio delle lezioni») e i 150 minuti che mediamente si dedicano alle attività collegiali, otteniamo che già oggi un insegnante lavora 23 ore e mezza alla settimana (4,7 ore dal lunedì al venerdì), quindi solo mezz’ora meno di quanto preteso da Profumo; naturalmente senza contare le attività individuali, per intenderci quelle sciocchezze tipo preparare le lezioni, correggere gli elaborati, individualizzare la didattica in base agli stili di apprendimento, aggiornarsi e studiare. Come si vede (sempre se si vuol vedere senza paraocchi ideologici), il lavoro al povero insegnante non manca.

Al lavoro “sommerso” del docente dedica un’interessante osservazione Nicola Porro sul Giornale del 23 ottobre. Scrive Porro che «sindacati e professori dicono che lavorano anche al di fuori dell’aula. Sacrosanto. Ma per quale motivo non hanno mai voluto quantificarlo nei loro contratti collettivi? Per quale motivo la maggioranza dei nostri insegnanti gode di fatto di più ferie di quante essi avrebbero sulla carta?». Le domande sono giuste ma mal poste, perché non sono gli insegnanti a non voler quantificare, cosa che si fa normalmente nel resto di Europa: a che pro? Come si è appena visto, mediamente gli insegnanti lavorano almeno sei/sette ore al giorno (perché un insegnante che non rubi lo stipendio ogni giorno prepara le lezioni e corregge i compiti) e che questo lavoro sia riconosciuto contrattualmente per loro sarebbe solo un vantaggio. Ma queste cose un giornalista dal curriculum come Porro le sa perfettamente. C’è solo da chiedersi perché non le scriva. Forse perché dovrebbe scrivere che chi non ha mai voluto mettere nero su bianco le ore eccedenti le lezioni frontali sono sempre stati i diversi governi, compresi quelli di destra suoi amici che in questi ultimi diciotto anni hanno cianciato a quattro venti di una rivoluzione liberale mai neanche iniziata? Perché se l’insegnante ha tutto da guadagnare nel riconoscere a contratto quello che deve fare fuori dall’aula, lo Stato ha tutto da perdere: significa dare al lavoratore i mezzi necessari per svolgere il suo lavoro, le aule dove correggere, i computer con cui preparare le lezioni multimediali, le biblioteche dove aggiornarsi, la carta per fare le fotocopie, tutte cose che oggi lo Stato non dà né vuole dare. E sempre lo stesso motivo, quello un po’ meschino del fare cassa, spinge lo Stato a dare agli insegnanti più ferie di quanto competano loro sulla base contrattuale: perché le scuole a luglio chiudono? Non sono certo gli insegnanti a chiederlo. Le scuole chiudono perché se fossero aperte senza studenti gli insegnanti non avrebbero niente da fare. Ma in Europa non funziona così. Sono migliori gli insegnanti europei? Ne dubito. È più facile credere che siano migliori i loro politici, capaci di investire nella cultura e nell’istruzione. E talvolta sono migliori anche i loro giornalisti, più capaci di Porro nelle analisi socioeconomiche. Proseguiamo infatti la lettura del già citato articolo del Giornale: «In un momento in cui a tutti è chiesto un grande sacrificio, la casta delle nostre scuole non ci sta. Appoggiata dalla politica che la considera, proprio per la sua numerosità, un bacino elettorale da non contrariare. I contribuenti sopportano più tasse, hanno meno detrazioni, le imprese pagano più che nel resto d’Europa, le aziende private sono costrette a fare contratti di solidarietà, le fabbriche chiudono, abbiamo almeno un milione di pensionati (tra esodati e ricongiunzioni onerose) in ambasce, ma i nostri professori considerano un loro diritto intoccabile lavorare 18 ore alla settimana. E l’aumento di sei ore viene considerato pericoloso. Per essere precisi un insegnante di italiano lavora circa 700-800 ore l’anno, per 165-175 giorni. Fate un conto su voi stessi». E facciamoli, questi conti, cominciando dall’aritmetica, che il nostro giornalista, nonostante la laurea in economia e commercio, mastica poco: un insegnante delle secondarie di primo grado prende servizio il primo di settembre e smonta il 30 giugno, il che significa che non è a scuola due mesi su dodici; aggiungendo i 15 giorni tra Natale e Pasqua, otteniamo così 10 settimane che tolte dalle 52 annue fanno, al netto delle domeniche, grosso modo 252 giornate lavorative. È troppo chiedere che conti ha fatto Porro? Ma questa sciocchezza aritmetica non è l’unica, né la più grave. Scrive Porro che i contribuenti sopportano più tasse e hanno meno detrazioni: forse che i docenti non sono contribuenti? E dopo aver pagato più tasse e avere sopportato tagli alle detrazioni come tutti gli altri contribuenti (oltre al blocco del contratto scaduto da sei – SEI!! – anni e degli scatti di anzianità come solo a loro è capitato), si devono anche vedere aumentare le ore lavorative del 33% a parità di stipendio (il che significa una diminuzione del 33% del salario)? A Porro questo pare civile, visto che «le imprese pagano più che nel resto d’Europa, le aziende private sono costrette a fare contratti di solidarietà, le fabbriche chiudono, abbiamo almeno un milione di pensionati (tra esodati e ricongiunzioni onerose)». Forse è davvero civile: ma noi insegnanti siamo fatti così, aspettiamo che qualcuno dia il buon esempio, magari i redditi superiori ai 150.000 euro che hanno ritenuto troppo gravoso un prelievo aggiuntivo del 3% a favore degli esodati, benedetti da Confidustria, dal Pdl e dalle zelanti firme del Giornale. Resta poi il riferimento agli insegnanti come casta, decisamente risibile se scritta da chi ha alle spalle un ordine professionale che «frena la modernizzazione dei mestieri perché ogni cambiamento turba i sonni di tutti coloro che temono di essere scavalcati dai tempi. Riduce drasticamente la competizione e penalizza i giovani. Rallenta i progressi dell’Italia rispetto ai suoi partner europei» (Sergio Romano, Corriere della Sera, 30 novembre 2011).

Ma non c’è solo l’ “intellettuale organico” a spalleggiare il ministro Profumo nella sua campagna contro gli insegnanti che lavorano poco, fannulloni e imboscati, chiusi a riccio nei loro privilegi. Accanto al generale Profumo, spinta alla carica dalle trombe dei giornali, c’è la fanteria di un’opinione pubblica sobillata contro questa categoria che non ha mai amato e che disprezza sempre di più. «L’aumento da 18 a 24 ore dell’orario di insegnamento contenuto nella legge di stabilità per il 2013, in discussione alla Camera» riporta la Repubblica del 28 ottobre «sta spaccando a metà l’opinione pubblica italiana. Una parte ritiene legittimo l’aumento di sei ore settimanali a carico dei docenti di scuola media e superiore. (…) L’altra metà dell’opinione pubblica è contro l’aumento forzoso dell’orario di insegnamento previsto per i prof italiani». Sarà anche così, ma la percezione che si ha leggendo i blog e i commenti sui giornali sembra far pendere la bilancia a favore di coloro che plaudono alla politica ministeriale. Che poi tale linea sia oltraggiosa dei diritti dei lavoratori, questo pare impensierire pochi. Ma non è solo colpa della gente, che conosce poco (e male) la realtà della scuola, né dei giornalisti che spesso, anziché dire le cose come stanno, preferiscono accodarsi ai desideri dei padroni o dei gruppi dirigenti – che sovente coincidono. Il punto nodale lo tocca ancora Porro quando scrive che la riforma voluta da Profumo non passerà perché la “casta” della scuola è «appoggiata dalla politica che la considera, proprio per la sua numerosità, un bacino elettorale da non contrariare. (…) La pubblica istruzione non è pensata per le generazioni future, ma come ammortizzatore sociale per il lavoro. Ciò che contano non sono gli studenti e la qualità dell’istruzione, ma la possibilità di impiegare più personale». Al di là della sciocchezza dell’istruzione pubblica che non esiste più da anni (Profumo e predecessori sono ministri dell’istruzione, ed è grave che Porro finga di ignorarlo, creando nei fatti una dicotomia pubblico/privato sbilanciata a favore di quest’ultimo, come se l’istruzione privata fosse  necessariamente sinonimo di qualità), resta la correttezza dell’analisi che mette il dito nella piaga: la scuola è da sempre un ammortizzatore sociale più che un luogo di professionisti al servizio degli studenti, e i politici si guardano bene dall’accarezzare contro pelo un bacino di voti così copioso: è difficile credere che tutti i partiti di maggioranza (soprattutto quelli del centrodestra) abbiano preso le distanze da Profumo per un motivo diverso dal cinico opportunismo: le elezioni di aprile sono assai vicine e l’alienazione delle simpatie di una così cospicua parte del pubblico impiego potrebbe costare cara in termini di resa elettorale. Il che implica un paio di cose non trascurabili. La prima è che gli insegnanti non devono abbassare la guardia e non illudersi per il fatto che la norma delle 24 ore sia stata stralciata dalla legge di stabilità: è assai probabile che il nuovo esecutivo possa tornare ala carica, anche se fosse di centrosinistra, visto e considerato che, con buona pace di Monti, siamo ancora ben lontani dalla fine della crisi e che i nostri politici, di qualsiasi colore siano, hanno dimostrato più volte di saper fare cassa solo tagliano le spese. La seconda è che, comunque vadano le cose, la scuola così come è non funziona. Certo la soluzione del ministro è una non soluzione, per di più peggiorativa rispetto allo stato delle cose, per cui vale ben la pena di contrastarla. Ma non possiamo solo difendere l’esistente quando tocchiamo con mano ogni giorno che l’istruzione fa acqua da tutte le parti. Chi lo dice? Tanto per cominciare il Programme for International Student Assessment (PISA), uno dei più accreditati sistemi di valutazione internazionali che, a cadenza triennale, verifica le abilita in matematica, lettura, scienze e problem solving degli studenti. Secondo i risultati di PISA 2009 «l’Italia ha conseguito un punteggio medio di 486, leggermente ma significativamente al di sotto della media OCSE, che pure si è abbassata passando da 500 del 2000 a 493 del 2009» (Primi risultati di PISA 2009 consultabile qui). E poi lo dice la nostra quotidiana esperienza di studenti e genitori. Nasconderci una realtà talmente lapalissiana non servirà certo a risolvere il problema. Se mai, servirà solo a spianare la strada ai diversi Ministri che pensano di affrontare la questione mostrando i muscoli e invocando baggianate quali bastoni e carote. Stiamoci attenti: sottovalutare queste dimostrazioni di forza oggi (che come tutte le dimostrazioni di forza nasconde solo una pochezza di idee) ci fa correre il rischio di scivolare su un piano sempre più inclinato, fino a farci svegliare nel mondo da incubo del libro e moschetto.


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