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Liguri, i migliori difetti e le peggiori virtù.

Creato il 25 agosto 2012 da Rstp

Il turista che arriva in Liguria dopo essersi lasciato alle spalle la nebbia, il freddo, lo stress di città affollate si aspetta di incontrare un posto solare, che sguazza felice nel mare. Niente di più sbagliato: i liguri sono un popolo di montagna, chiuso, assai poco ospitale, e conquistarsi la loro fiducia e la loro amicizia è difficile quanto aggiudicarsi un lettino in prima fila a Ferragosto. Non sprecano nulla, meno che mai i sorrisi, e hanno molto a cuore il riciclo, specialmente dei regali ricevuti a Natale, che tengono stipati in soffitta insieme a quintali di inutili rapati. Orgogliosi e gelosi della bellezza delle loro spiagge, ma ancor più dei gioielli nascosti nell'entroterra, sono sempre un po' irritati all'idea di doverli dividere con turisti milanesi e tedeschi. I soldi che incassano (spesso in nero) non bastano a ripagarli di inquinamento, code, confusione, soprattutto perché, come ripetono a ogni estate i negozianti delle riviere, "quest'anno c'è poco movimento", e se c'è, "i turisti non spendono più come una volta". Questa guida vi insegnerà a conoscere il ligure per come è veramente, e a volergli bene lo stesso.

La grande maggioranza dei turisti che arriva in Liguria lo fa scendendo da Nord, dopo avere affrontato chilometri di neb­bia in inverno o di code in estate. Nonostante lo stress, il visi­tatore ha il cuore sereno, allegro, pronto a godersi mare, sole e uno splendido paesaggio. Poche emozioni valgono quella di lasciarsi alle spalle l'ultima galleria dell'autostrada e trovarsi davanti, improvvisamente, il mare di Liguria inondato di luce.

Verrebbe quasi automatico pensare che in questa re­gione meravigliosa abiti un popolo vivace, solare, portato a godersi la vita giorno per giorno. Niente di più sbagliato: al turista basteranno pochi giorni, anzi poche ore, per capire di non essere arrivato in un posto di spensierata vacanza, ma in un santuario che i suoi abitanti difendono con orgoglio e dove nessuno gli regalerà nulla, neppure un cenno di saluto.

In realtà bisogna stare attenti a parlare di Liguria e di liguri: come accade in altre regioni d'Italia, le rivalità muni­cipali sono molto forti e ogni città, ogni paese, è un mondo a parte dove tutti si sentono speciali e odiano i «cugini»: i savo­nesi non sopportano i genovesi, che a loro volta parlano male dei chiavaresi che non vedono di buon occhio gli spezzini e così via. Tanto per darvi un'idea, in nessun dialetto della re­gione esiste un termine per dire «Liguria».

Questo non vuoi dire che i liguri non esistano: a Ponente come a Levante, a Genova come alla Spezia il visitatore saprà riconoscere nella gente lo stesso tipo di accoglien­za (fredda), la stessa socievolezza (nulla), la stessa tirchieria (forte); insomma, una lunga serie di difetti, e qualche pregio, che dovrò imparare a sopportare, e se possibile a volgere in suo favore,
Un primo consiglio elementare è quello di sfruttare astu­tamente le rivalità della regione: se andate a Varigotti, esordite con un: «Arrivo adesso da Genova: che sporcizia, che genta­glia, che schifo!». Se siete alla Spezia, mostratevi sinceramen­te stupiti e costernati del fatto che non sia ancora stata crea­ta la regione autonoma della Lunezia. A Genova, lamentatevi dell'atmosfera fasulla che si respira a Portofino. E così via.

Ma soprattutto, dovunque vi troviate, evitate di ca­dere subito nell'errore tipico del principiante foresto: quello ili esaltare il mare, la spiaggia, e dire al vostro interlocutore: «beato lei che può andarsene in giro in barca...».

I veri liguri amano l'acqua più o meno come i gatti: hanno navigato sempre e solo per necessità, aspettando con ansia il momento di tornare alla loro casetta di campagna per coltivare l'orto. Sono legatissimi alla terra, hanno il caratte­re duro e chiuso tipico dei montanari, e non a caso la Liguria è territorio fertile per il reclutamento degli alpini. Perciò, se  volete entrare in confidenza con il bagnino o il tabaccaio, non ditegli: «Ho fatto una gita in barca all'isola Gallinara», ma piuttosto: «Mi piacerebbe arrampicarmi fino ad Aquila d'Arroscia». Li vedrete illuminarsi, si offriranno come guide e non è da escludere che vi portino a bere un quartino di quel­lo buono. A patto, ovviamente, che paghiate voi.

II mare, motivo principale che vi ha spinto in Liguria, per gli indigeni resta un nemico o perlomeno un avversario ila temere e rispettare, e da cui non ci si può aspettare nien­te di buono: «Mìga pe ninte u ciaman ma», dice il proverbio.

Vecchie glorie.

Come tutti i popoli che sono stati grandi e potenti e che la storia ha poi ridimensionato, i liguri hanno conserva­to un orgoglio e un'amarezza che li rendono spesso intratta­bili. La potenza politica ed economica del passato è legata soprattutto alla Repubblica di Genova, la cui fortuna comin­ciò intorno al 1100 con la partecipazione alla prima Crocia­ta e la conquista di Antiochia, Giaffa, Cesarea e molte altre colonie.

Genova fu protagonista assoluta della terza Crociata (1189-1191) e ne trasse la spinta per imporsi, durante tutto il Duecento, come la più grande potenza navale del Mediterra­neo e probabilmente la città più ricca d'Europa. I genovesi ave­vano possedimenti fino in Asia Minore, si erano spinti sul Mar Caspio e, giurano loro, commerciavano con la Cina ben prima che quel veneziano contafrottole si inventasse II Milione. Nes­suna crociata, nessuna esplorazione, nessuna impresa sarebbe stata possibile in quei secoli senza le navi della «Superba»: e anche il soprannome che scelsero per la città la dice lunga...

La decadenza navale cominciò nel quindicesimo seco­lo, quando Costantinopoli trascinò con sé nella sua caduta anche le colonie genovesi. La decadenza economica arrivò invece più tardi, perché i zeneizi furono abili a riciclarsi come banchieri e strozzini. Ma alla fine anche le palanche comin­ciarono a scarseggiare, e una volta persa l'indipendenza nel 1815, la Repubblica di Genova si ripiegò in se stessa, nelle grandi fabbriche di acciaio, nel porto, nell'assistenza statale.

Oggi le fabbriche non ci sono più, il porto soffre la con­correnza di altri scali europei meglio organizzati, lo Stato se n'ò andato alla chetichella. Ai genovesi è rimasta, però, la superbia (o l'orgoglio, a seconda dei punti di vista): quell'at­teggiamento impassibile tipico di chi sente di avere tanto visto e tanto vissuto ila non potersi più stupire di niente.

E sono rimasti, in fondo all'animo dei locali, tanto pes­simismo e tanta amarezza; e forse anche quella scontrosità che tulli considerano il loro più grave difetto.

Se la storia dei genovesi fosse la vita di un uomo, sareb­be quindi la storia di un giovane top manager da diecimila euro al mese, che va in vacanza nelle isole più esotiche e ha pote­re, amici, donne. Un giorno viene licenziato, perde fascino e amicizie, invecchia in fretta, finisce in pensione a quattrocen­to euro al mese e passa gli ultimi anni vagando per le strade come un barbone, spendendo le poche energie rimaste per mantenere il vestito buono e il cervello spieiato. Chiedergli ili MinidiTe ed essere felice, via, sarebbe davvero troppo.

E gli altri liguri? Molte città, durante tutto il Medioe­vo, furono fedeli alleate di Genova e ne seguirono la sorte nel bene e nel male: è il caso di quasi tutti i centri della Riviera di Levante. Altre, e principalmente Savona e qualche centro del Ponente, la combatterono sempre, invidiandone i succes­si e godendo delle sue sconfitte. Ma tutte le città della regio­ne, amiche e nemiche, vivevano in funzione di Genova e hanno ereditato un certo provincialismo, un complesso di inferiorità da cui cercano ancora oggi di liberarsi: ignorando il capoluogo, contestandolo, o minacciando periodicamente di staccarsi e creare nuove regioni collegate al Piemonte, alla Toscana o alla Francia.

Io penso negativo.
Genova si vanta spesso di essere «la città più inglese d'Italia», e come vedremo più avanti, inglesi e genovesi hanno molti aspetti caratteriali in comune. Se i loro «cugini» di Ol­tremanica si consolano giocando al Commonwealth, fingendo di essere ancora imperatori del mondo, i genovesi hanno ormai perso oltre alle sostanze anche le apparenze, e le uniche «colo­nie» rimaste (ma solo per affinità linguistiche: vi si parla il dia­letto di Pegli) sono Carloforte e Calassetta in Sardegna.

La scontrosità con i forestieri, tipica non solo dei geno­vesi ma di tutti gli abitanti della Liguria, è quindi quella dei nobili decaduti che per sopravvivere devono affittare il ca­stello ai barbari che scendono dal Nord Europa (o dal Nord Italia), e far loro da camerieri. Al retaggio imperiale risale un'altra delle caratteristiche dei liguri: non parlano, non di­scutono; più semplicemente, affermano. E hanno sempre una opinione su tutto, ovviamente opposta a quella dell'interlo­cutore «straniero». Contraddire un ligure significa fargli un grande regalo, perché gli permetterà non già di litigare (non ne siete degni) ma di ridicolizzare le vostre tesi, possibilmente con qualche paroTa in dialetto piazzata nei punti giusti del discorsi).

Non chiedete poi ai liguri di essere ottimisti, né di cre­dere che le cose miglioreranno: il futuro è una delle cose che odiano di più. Lo odiano perché porterà, ne sono certi, solo lutti e disgrazie.

11 ligure non ha fiducia nei progetti, nelle invenzioni, nel­le scoperte scientifiche. Ogni volta che esce qualcosa di nuovo, il ligure dirà che nuovo non è, perché ricorda perfettamente che già suo nonno aveva qualcosa di simile (ma funzionava meglio); oppure dirà che sì, è nuovo, ma non serve a niente. Insomma, si stava sempre meglio prima, e comunque l'oggi non o poi così male, se pensiamo a quello che ci aspetta domani.

Costano, i figli costano.
La scarsa fiducia nel futuro è uno dei motivi per cui nella regione si fanno pochi, pochissimi figli; anche se negli ultimi anni si è notata una discreta ripresa demografica, e non solo per l'arrivo degli immigrati. La vecchia battuta «Perché mettere al mondo un infelice?» devono averla inventata in Liguria. Un altro motivo è che i figli costano, e non è affatto chiaro che siano un buon investimento: nessun imprendito­re di buon senso assumerebbe un bambino appena nato, man­tenendolo e vestendolo a sbafo fino all'età lavorativa.

In ogni caso, l'anno 2000 ha portato a Genova un curio­so primato: quello di una prima elementare, in una scuola del centro storico, composta esclusivamente di bambini stranieri. Insomma, trovare un ligure «autentico» è sempre più difficile; il rhr non è necessariamente una gran perdita.

A proposito di figli: nella Legione straniera, un solda­to ligure sta scavando una trincea. Arriva il capitano e dice: «Parodi, c'è una lettera dei tuoi genitori».

«I miei genitori? E cosa vogliono? Avevo sei mesi quan­do mi hanno sbattuto fuori di casa!».
«Dicono che gli devi sei mesi di affitto arretrato».

Vecchietti terribili.
La Liguria è la regione più vecchia d'Italia. Orde di pensionati provenienti dal Nord vengono
belle giornate (l'inverno, quando il sole è tiepido e quasi pri­maverile, i vecchietti spuntano dai loro ripari, strisciano rapi­di come lucertole fino alla panchina preferita e restano lì a ricaricarsi, per ore, come batterie solari. I paesi di Liguria assu­mono allora il caratteristico, ìlare aspetto di un immenso ospi­zio all'aperto, con i rari passanti under 70 imbarazzati come parenti in visita.
Molto più viva e attiva, rispetto al pensionato da Riviera, è la vecchietta di Genova, cresciuta alla dura scuo­la della città tentacolare: è temibile soprattutto in occasio­ne dell'arrivo dell'autobus, che scatena in lei il timore ata­vico di essere spinta, calpestata e infine esclusa dai posti a sedere. Già alla fermata, la vecchietta comincia a studiare con sguardi obliqui gli avversar! potenzialmente più indife­si: non le altre vecchiette, con cui c'è un taciti) patto di non belligeranza, ma le casalinghe con le sporte e gli studenti distratti.

Non appena l'autobus arriva e apre le porte, la paci­fica vecchietta che non avevate neppure notato si trasfor­ma in una belva sanguinaria: una gomitata nel costato dello studente, un calcio alla sporta della casalinga, un'ombrella­ta al basso ventre del cassintegrato, ed eccola balzare sulla seggiola più vicina, dove passerà il resto del viaggio a bron­tolare perché il posto più comodo, quello rivolto nella dire­zione di marcia del bus, se l'è aggiudicato una signora più giovane di lei, così maleducata che non le ha ancora offer­to di fare cambio.

Se viaggia con altre coetanee, la vecchietta da autobus rinuncerà alle lamentazioni in cambio della sola cosa che le da ancora più soddisfazione: la conta dei morti e delle malattie. Racconterà sicuramente che sta andando in ospedale a trovare un'amica, o che c'è appena stata, il tutto scuotendo la testa e dicendo «non c'è più niente da fare».

E ricorderà il caso di un'amica che aveva gli stessi identici sintomi ed è morta dopo tre giorni, o della nipote di quell'altra amica che aveva solo vent'anni, poveretta, e se n'è andata da un giorno all'altro, e nessu­no ha capito perché.

In pochi secondi, quasi per solidarietà con il cassinte­grato che ha ricevuto l'ombrellata, tutti i passeggeri maschi avranno la mano in tasca, a strofinare le parti intime.


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