
LILI | THE DANISH GIRL
Un melodramma transgender di Tom Hooper
di Carlo Camboni


Concediamoci l’azzardo: questo è un film di Eddie Redmayne, è ridiretto da lui, dal suo sguardo curioso e dal suo sorriso timido e ammaliante, dai primi piani di lineamenti irripetibili che accompagnano certi suoi gesti delicati, il suo saper evocare una femminilità dirompente proprio perché fiorita da istinti troppo a lungo inespressi. Si potrebbe recensire il film raccontando la performance-Redmayne, attore in grado di dimenticare se stesso e quindi l’io ipertrofico dei nuovi divi venerati e premiati dalla Hollywood che conta: la sua identificazione con la persona Lili Elbe, realmente esistita, è perfetta, al netto delle polemiche di parte della comunità LGBTIQ, che in nome dell’autenticità, questa sconosciuta tra gli attori emergenti, avrebbe preferito per il ruolo un attore transgender, come se la parola attore dovessimo reinventarla volta per volta, genere per genere. Inevitabile per Hooper raccontare le vicende matrimoniali della Lili pre-operazioni anche perché il film si basa sul romanzo di David Ebershoff. La trama è semplice: Einar incontra Gerda in una scuola d’arte di Copenaghen, fanno gli illustratori, si sposano, viaggiano e a Parigi Einar inizia a esplorare il suo lato femminile in modo aperto, pubblicamente, sostenuto dall’intelligenza della moglie Gerda. Nelle sequenze di vita matrimoniale emerge una Vikander perfettamente in parte, regina di un equilibro ai limiti del virtuosismo anche se la sua mentalità aperta da donna degli anni venti a suo agio nel seguire il percorso dell’amato marito non fa pace con le strizzate d’occhio al pubblico (mainstream) da parte del regista.

E ancora: la scoperta di una fisicità altra non è mai casuale, non può non esserci stato un déjà vu intellettuale e sentimentale, un’invenzione precedente, dunque alcune scoperte da parte di Lili appaiono forzature della sceneggiatrice Coxon proprio mentre Redmayne mette in gioco i centimetri della sua pelle punteggiata di lentiggini scoprendo il fruscio dei vestiti femminili sfiorati dai polpastrelli; il suo essere finalmente donna tra le altre donne, un sentire nuovo, tattile e di superficie ma in realtà profondo perché sostenuto da un nuovo vissuto restituito agli spettatori in un modo che non lascia indifferenti. Redmayne reinventa l’estetica del volto e del corpo al cinema, stabilisce nuovi canoni plastici, crea modernità proprio per la sua capacità d’immedesimazione in un essere umano vissuto cento anni fa: e in quest’opera Hooper lo asseconda. Il racconto è commovente, interessante; gli elementi profilmici sono curatissimi e quasi viscontiani ma: c’è un ma grande come la Danimarca che è la frontiera già esplorata del trangenderismo nel cinema indie e via cavo di questi anni, e basti pensare a opere come Tangerine in cui l’odore di sangue nella vita viva travolge drammaticamente e senza possibilità d’appello l’odore di disinfettante lasciato sul tavolo operatorio sterilizzato di Hooper.
Carlo Camboni

Cover Amedit n. 25 – Dicembre 2015
“Célestine” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 25 – Dicembre 2015.
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