Liliana Zinetti – Viviana Nicodemo, MINIME DA UNA FINE, CFR 2013
Questa foto è stata scattata in uno spazio interno, davanti a una finestra e con la luce naturale. Il sottotesto è la motivazione di un racconto, poi sviluppatosi negli altri scatti, anche all’aperto. Viviana Nicodemo utilizza gli oggetti per raccontare, mentre il corpo propone un suo racconto silenzioso e lacerato, l’assenza di qualcosa che non si può più dire. Sono temi che traspaiono dalle altre immagini del libro, alcune inedite, le altre tratte dal volume Necessità dell’anatomia (Ed. Spirali). E’ proprio questa necessità di un dire che non può più essere detto che esprimono i corpi, suggerendoci che l’arte del novecento, la migliore, è segno che impatta con la materia dell’homo sapiens: mente incarnata in un corpo.
Il segno astratto, invece, a mio avviso, è l’arte minore del novecento.
Sebastiano Aglieco
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L’incontro fra la poesia di Liliana Zinetti e la fotografia di Viviana Nicodemo è il frutto di una intesa inconsapevole che, proprio in questo quaderno, assurge alla consapevolezza (critica) di una vicinanza di temi e di spunti, a volte, come nel caso degli specchi, sorprendentemente simili. (…) Vedendo certe immagini, nella loro livida situazione di smarrimento, di fragilità, di dubbio e solitudine, vengono in mente, ad esempio, le sculture di Alberto Giacometti, la filosofia di Sartre, la pittura di Mario Sironi. (…) I suoi soggetti sono pertanto spogli, gli ambienti decrepiti e degradati, colti nella loro decadenza segnata dall’incuria e dall’abbandono. (…) Si tratta, pertanto, di una poetica che celebra i vinti, coloro che vivono in uno stato di emarginazione mentale, di sofferenza psichica…
Gianmario Lucini
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Conosco l’opera di Liliana Zinetti per averla seguita in questi anni. La sua scrittura si situa tra la forza dell’immagine – a volte mentale – e quella di un contesto: paesaggio oggettivato, paesaggio interiore, riflessione ontologica. Ma si potrebbe utilizzare una parola ormai passata di moda, sottratta alla politica forse perché considerata, appunto, poco politica: la parola è esistenzialismo. Volendone dare una lettura staccata da un contesto storico, essa sta ad indicare il male dell’essere causato e nello stesso tempo senza causa. Il luogo per antonomasia è il vivere quotidiano, la solitudine della visione che non si stempera ma piuttosto si concentra tutta in un punto: quello dell’apparire della scrittura. Essa, allora, raccoglie tutto, mal di esistere e male senza causa: “Ti alzi, prendi il bicchiere per un brindisi/ai giorni a venire e guardi il fondo/come gli aruspici guardavano le viscere,/pensi che in fine la vita/non sarà che questo, ricordi ammucchiati/come cataste di legna, qualcuno che hai amato/e un giorno è andato via”.
Sebastiano Aglieco
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Il lettore non tragga conclusioni affrettate da un titolo che potrebbe essere riduttivo, nulla è minimo nel ritmo continuo e mai banale di una storia di lacerazione, morte. Il disegno sotteso va ben oltre: è atto consapevole di una tragedia esistenziale che appartiene a tutti, una situazione sartrianamente infernale, in cui l’altro si trasforma nel carnefice che ammicca al punto di non ritorno, alla corrosione di ogni sicurezza, di qualsiasi spazio. (…) Il contesto è accompagnato da una poesia asciutta, prosciugata in ogni minimo sintagma, in cui esperienza reale e finzione poetica, meravigliosamente, coincidono. (…) Scavare nel dolore che traspira ovunque, anche dalle cose, per evocare l’umanità franta dell’essere: questo il progetto complessivo di un poemetto in cui la Zinetti rivede l’esperienza della Szymborska, spesso e giustamente citata, attualizzandola a una realtà indecifrabile, labile, sfuggente.
Ivan Fedeli nell’introduzione
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Essere cosa
Accadde che l’immagine penetrò lo specchio.
Vi si stabilì incurante del suo patire
e degli scricchiolii, di un inutile contorcersi.
C’è una sofferenza che attiene anche agli oggetti.
Invano lo specchio tentò di cacciare
l’oscuro intruso, invano si sforzò di rimanere
intatto. Cedette, si frantumò
in minute schegge, così
lesta l’immagine scivolò via, si diresse altrove.
Ma era solamente uno specchio,
una cosa
e questa non è una poesia.
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Lei arriva quando vuole, si siede
e accende una sigaretta. Mi guarda.
– Per molto tempo ti ho attesa.
Non risponde, sbuffa, volute di fumo nell’aria.
– Parlami, dammi la misura del mio stare
ad attenderti come una risposta possibile.
Fissa un punto sulla parete bianca, tace.
Forse attende un mio gesto. Allungo la mano.
stringo il foglio. Lei si alza e nell’uscire si volta
rabbuiata.
- Nasco per morire dopo pochi versi, questa
la misura. La risposta esiste, ma tu, tu
non sai porre la domanda. La tua finitudine
ti condanna. Accendi il lume e prega, la notte
è buia e le stelle una rovina.
Non hai altre stanze che il mio silenzio,
il bianco tra le parole.
Avrai coraggio?
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Hanno lasciato le orme vili della resa,
hanno abdicato. Nessuna direzione,
nessun padre.
Invano abbiamo chiesto l’acqua
per benedire i figli, per alzarsi al cielo.
Ogni presenza è spezzata.
Pietra che macina pietra.