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Lilith, il calligramma di un vortice

Creato il 13 novembre 2013 da Vivianascarinci

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Viviana Scarinci: voce;
edo Notarloberti: violini e violoncello;
Martina Mollo: pianoforte
Disco registrato da Antonio Esposito nella primavera 2013 presso «TP Studio», Napoli
Mixato da Giuseppe Spinelli e Antonio Esposito
Testi di Viviana Scarinci
Musica di edo Notarloberti
Traduzione di Natalia Nebel
Ideazione e realizzazione grafica di Rossana Rossi
[email protected]http://www.arkrecords.net

“La storia di Eva è scritta e la sanno tutti, la storia di Lilith invece si racconta soltanto” scriveva Primo Levi, in un brano in cui sottolinea quante poche certezze siano riscontrabili rispetto al mito di Lilith e quanto la prosecuzione del racconto possa rappresentare un’occasione imperdibile per chi in ogni tempo se ne sia sentito chiamato in causa. Attraverso le pagine di Primo Levi si ventila anche l’ipotesi che non sia veramente esistita una Lilith, che non esistesse altrimenti che da un’immagine speculare ma distorta di Eva. Rimane effettivamente il sospetto che la figura di Lilith non regga a fronte di tutte le turpitudini che le si sono attribuite secolo dopo secolo, e che si sgretoli, diventando invece che la donna in assoluto precedente, una semplice diceria a carico della troppo rivelata Eva. Una maldicenza che avversa Eva, per rafforzarla, come il fantasma di una rivale malvagia giustamente condannata a perdere. Lilith, ladra e assassina di bambini, per di più madre del démone più terribile che l’età babilonese ricordi, tanto terribile, da condannare chi lo ha generato alla vergogna sempiterna di aver messo al mondo un figlio la cui nascita coincide con la morte di tutto l’altrui. Sono queste le prime notizie rinvenute e che ora dopo anni mi spingono a pensare il contrario di quello che ho sempre creduto e che mi ha condotto a scrivere direttamente o indirettamente di Lilith in quasi tutte le occasioni in cui ho scritto poesia negli ultimi dieci anni. Ora so che Lilith non è mai esistita, che è una scusa, una sorta di Eva nera posta consapevolmente a controfigurare ogni donna sfigurata, consentendo a chi la guarda di sorvolare sul danno per chiuderle quotidianamente il viso nelle fauci della belva. E proprio in questi strani giorni in cui ascolto l’audio definitivo de La Favola di Lilith, che è il risultato di due anni di lavoro condiviso con Edo Notarloberti, proprio in questi giorni, tutto sembra ridursi a quella coerenza perduta e manifesta che in un certo qual modo stavo aspettando. Parlo di quel nucleo di necessaria coerenza che a un certo punto si rivela a posteriori, ma solo se si sia agito fedelmente lungo un percorso in cui abbia dominato il buio. Parlo del senso che ora posso interamente cogliere riguardo una specularità che declina in una torsione: l’una e l’altra, la prima e la seconda donna, colei che viene dalla polvere, sollevata dalla stessa terra dell’uomo e colei che gli resterà sempre in una porzione piccolissima, iscritta nel torace come in una gabbia. Trentadue tracce musicali per dirlo, trentadue frammenti a comporre i due atti de La favola di Lilith, proposta anche nella bella traduzione in lingua inglese a cura di Natalia Nebel. Se il calligramma è il disegno di un discorso le cui parole perdono il loro corso lineare, perdono la nozione dello spazio e del tempo per diventare, tutte insieme, una cosa, il primo atto di Lilith è l’inizio di questo scoordinamento, della caduta nel lutto unisono di nascere e di morire. Il secondo atto è dedicato a due ipotesi: il monologo di Lilith che si rivolge a Dio, di cui secondo la tradizione ebraica nella storia di tutti i tempi fu l’unica amante che gli si conosca. E quello del dialogo tra Lilith e Er, l’ uomo cui secondo il mito platonico era stato concesso di andare e tornare dalla morte. E proprio al centro di questa morte ho voluto che Er trovasse Lilith ad aspettarlo.

La mente umana nella sua parte più coraggiosa, non ha mancato mai il grande tentativo di liberarsi dell’ostinata presunzione socratica e umanista: quella secondo cui tutto che attraversa l’apparatus razionale diventi, sic e per questo, ragione, razionalità, ragionevolezza; così venendo a togliere alla mente le sue facoltà diafaniche, la sua grandiosa trasparenza. Come la ragione così anche l’arte tenta di liberarsi dalla presunzione analogica: cioè che tutto quanto passa per l’apparatus figurativo diventi subito e naturalmente, figurazione, mimesi; quella presunzione per cui essa tende a ricostruire il mondo oggettivo come un teatro finito.
Emilio Villa, Attributi dell’arte odierna 1947/1967 p.52, Le Lettere, Firenze 2008

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