…they have been destroyed, one
might say, by their own excellence.
Regarded in this way,
they are the heroes of the universe.
Al margine dell’ufficialità, nelle tenebre degli scritti apocrifi, c’è Lilith.
Una doppia versione delle Genesi apre le porte a questa storia fatta di zone oscure, derive orrorifiche e spirito rivoluzionario. Se nel racconto ufficiale è narrato di come Dio abbia creato l’uomo, ed, accortosi che non era buona cosa lasciarlo solo, da una costola di Adamo creò Eva, nella versione apocrifa del sacro testo la vicenda è diversa: Dio creò l’uomo e la donna, esseri alla pari, senza piedistalli privilegiati per il sesso maschile. Ma l’uomo voleva per lui solo il posto di comando, ed allora chiese aiuto a Dio, il quale, uomo anch’egli, scacciò la prima donna, Lilith, dal paradiso terrestre, e creò la più docile Eva. Lilith si rifugiò negli inferi, diventando un angelo del male assetata di sangue e seme maschile, sempre alla ricerca di neonati da sacrificare.
Questa storia è alla base di numerosi culti sotterranei, è riconosciuta dalla Cabala ed alimenta un culto notevole tra chi si interessa di occultismo. Anche Primo Levi ne ha raccontato la storia in un suo piccolo racconto. È inoltre dichiarato punto di riferimento per ogni femme fatale che si rispetti, con il suo alto tasso di seduzione ed erotismo, una possibile rivincita al femminile della grande Storia scritta da una egoistica mano maschile.
Nel 1964 quel Robert Rossen noto a noi soprattutto per Lo spaccone (1961) intitolò la sua ultima opera Lilith, a cui in versione italiana è stato giustapposto “La dea dell’amore”. Un film nella cui aria aleggia il retroscena autobiografico del regista, uno tra gli artisti “rossi” messi all’indice dalla commissione McCarthy negli anni ’50. Nella lista nera degli indesiderati e lasciato per due anni senza lavoro, nel ’53 Rossen si decise a parlare, rivelando i nomi dei suoi compagni di partito. Un artista discriminato per le sue idee, destinato alla punizione e costretto poi a convivere con un sanguinoso senso di colpa, forse nella stessa maniera con cui è tratteggiato il tormentato protagonista della pellicola.
Jean Seberg offre la sua presenza, già ben oltre che umana, al servizio del ruolo di una donna al limite del divino, dell’etereo, dell’indescrivibile, dotata di quel misterioso sentire che le permette di disegnare con il sorriso sulle labbra, le consente di confessare d’esser di tale buon umore“because i’m mad!”. Reclusa nella casa di cura poiché sospetta di schizofrenia galoppante, vive nel suo mondo e nel suo linguaggio, fatto di una ricomposizione dell’ordinario sotto una diversa forma.
Warren Betty è uno di quei giovani che la guerra ha disconnesso dall’attività sociale, condizionandone la meccanica di pensiero,sconvolgendone ogni serenità e spostando in un altrove sconosciuto l’ordine delle priorità e dei valori. Egli cerca un’impossibile età dell’oro, smarrita con la morte della madre e la partenza per il fronte coreano. Eppure solo lui, pieno di (un eccesso di) sensibilità, riesce a mettersi in contatto con la giovane malferma, si fa confessare le inquietudini da reclusa ed incompresa, si fa sedurre, ma subdolamente o implicitamente, non semplicemente con un linguaggio fisico, attraverso la condivisione di quel magico mondo di cui è la regina. Si tratta di rapture, rapimento ed estasi. Gli occhi della donna, al primo incontro con un luogo esterno alla casa di cura, sono quelli di chi è affamato di libertà, voglioso di vivere la selvaggia libertà della natura. Eppure qualcosa di oscuro e sotterraneo traspare già dal suo fissare in stato semi-ipnotico il tuffarsi fragoroso dell’acqua dalle cascate, riempendosi le orecchie d’un brusio insistente, quel fluire incontrollato ed indefinito che si può forse apparentare ai bisbiglii infernali narrati da Dante nella sua Commedia.
Peter Fonda, giovanissimo ed in un ruolo importante per la storia, avanzerà una questione degna di gran dibattito: “ E se la pazzia fosse equivalente all’infelicità?”
Intorno al concetto di normalità, alla sua aleatoria definizione, all’impercettibilità del limite da marcare o da varcare, Lilith è la via per credere, come lei stessa cerca di suggerire, in una diversa felicità. Perché, insomma, la propria vita dovrebbe essere scelta a priori, dall’esterno? Perché non creder a ciò che “l’altro” afferma? (lei dirà, pensando al suo psicanalista-carceriere: He’ll believe anything about me except that I’m happy), perché tacciare d’infermità quel che è piuttosto sintomo di straordinaria sensibilità?
Chi ha “a talent for love” è accusato di peccato, chi dona il proprio amore a tutti è disprezzato. Cosa rispondere alla provocatoria domanda di Lilith: “Se il tuo Dio offre il suo amore a qualcun altro, tu allora smetti di amarlo?” É l’esempio vivido della discriminazione ed dell’intolleranza che le palesi o invisibili regole sociali promuovono nei confronti di figure alla ricerca di una via differente.
Tra Venere, Dioniso e Narciso, la donna divina che Jean Seberg incarna ha nello sguardo quel fascino perfido del non lasciare che sia facile a chi osserva d’ individuare la traccia del proprio pensiero, che si presenta piuttosto come un cristallo frantumato o come una asimmetrica ragnatela impregnata di veleno. Diabolico e oggetto di punizione, perdizione o pazzia, è quel pensare e vivere con in-distinzione il passato ed il presente, la legge ed il desiderio.
Fine tragica per un percorso impossibile, per un soddisfacimento macchiato di fato negativo. Non si può evitare di legare la conclusione della storia alla biografia della stessa Jean Seberg, musa di Godard ed attrice icona della Nouvelle vague, attivista politica vicina al Black Panther Party, morì suicida nel 1979, dopo anni passati sotto la morsa degli agenti Cia, ed in costante crisi depressiva. Quando decise di ingerire una quantità di barbiturici tale da provocarle una overdose fatale, lasciò un eloquente biglietto d’addio, con queste parole: “Forgive me. I can no longer live with my nerves”.
Ancora una volta incastrati e avvinti tra passaggi, di trapassi, di mescolamenti e di virtuosi circoli creatori e distruttori di vita e di arte, Lilith, il film che l’attrice ha più volte confessato di amare più di ogni altro suo lavoro, fu forse una macabra anticipazione di quella grave e sconsolata decisione.
Salvatore Insana
Scritto da Salvatore Insana il set 26 2011. Registrato sotto RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA, UNDERGROUND. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione