Sto leggendo Limonov e penso che, pur essendo un libro di gradevolissima lettura, non sia un capolavoro. Non è una recensione questa, è un'impressione dettata dal fatto che la supervita del protagonista, pur tornandomi utile a incorniciare il ritratto di un periodo storico-politico peculiare (l'Unione Sovietica dal primo dopoguerra sino alla caduta del regime), mi annoia profondamente. Le raffica di esperienze vissute sempre al massimo da Limonov, contrariamente a quanto credevo, più che gettare all'angolo la mia vita mediocre, me la rendono ancor più degna di essere vissuta, sia pure in condizioni da pulcino in batteria rispetto alle scorribande da lupo della steppa del poeta-politico russo.Non sono un buon lettore, dato che molto spesso commetto l'ingenuità di gettare il mio fantasma dentro al libro – operazione illegittima, che manca di rispetto alle intenzioni dell'autore. Sarà anche per questo che ho cercato sempre di leggere autori che impedivano di accavallarmi tra le righe della storia – con Nabokov, per esempio, m'è impossibile entrare nei panni di, o di mettermi accanto a, dacché l'arte nabokoviana alza delle mura invalicabili e io resto fuori, da lettore, a vedere l'incantevole spettacolo che viene rappresentato.Ma con Limonov, basta aprire la prima pagina, e pluf, subito tuffato, ma l'acqua è fredda, il mare mosso e ci sono tanti pescecani. Riesco e ripenso – anche perché la narrazione lo esige – a quando avevo vent'anni e lessi, fresco di stampa, Fuga da Bisanzio, di Iosif Brodskij (sempre edito dai tipi di Adelphi), modello-rivale di un Limonov trascinato gorgo della doppia mediazione.E mi ricordo anche dove presi i saggi brodskiani: una tenda della pace, io, da volontario, ero dietro la bancarella dei libri (e dove sennò?), e c'erano i Litfiba in concerto (fase new wave, ancora famosi famosi non erano). Venne una ragazza, sembrava sola ma forse non lo era, forse il suo ragazzo era un fan del gruppo fiorentino e lei no, stava in disparte, venne a vedere i libri della bancarella e io le misi gli occhi in faccia talmente era bella la sua faccia. Gli occhi, chiaramente, non erano insistenti, deviavano e ritornavano su di lei, e quelli di lei facevano lo stesso, finché tutti e quattro decisero che era il caso di ritardare la deviazione e prestare alle labbra il sorriso che già manifestavano. Si svolse tutto rapidamente: dato il rumore assordante del concerto, chiesi all'amico che, come me, presenziava la bancarella, di fare un attimo da solo, dovevamo uscire per parlare che non riuscivano proprio a sentirci là dentro quel tendone, io e lei. E appena fuori, fatti pochi passi, sotto la luce debole di un porticato, aprii il libro a caso e lessi:
«Oggi compio quarantacinque anni. Mi trovo ad Atene, seduto al Lykabettos Hotel, a torso nudo, immerso in un bagno di sudore, intento a ingurgitare potenti dosi di Coca-Cola. In questa città non conosco un'anima. Quando sono uscito al tramonto per cercare un posto in cui cenare, mi sono trovato invischiato in una calca eccitata che gridava parole inintelligibili. Per quel che posso capirne, è una vigilia elettorale. Mi trascinavo a fatica su uno stradone interminabile, bloccato da persone e veicoli, con gli orecchi rintronati dai clacson senza comprendere una sillaba, e all'improvviso mi è balenato il pensiero che quella, essenzialmente, era la vita dopo la morte – che la vita era cessata ma il movimento continuava, che l'eternità è fatta di questo.Quarantacinque anni fa mia madre mi ha dato la vita. Lei è morta due anni fa. L'anno scorso è morto mio padre. Io, il loro unico figlio, sto camminando di sera per le strade di Atene, strade che loro non hanno mai visto né vedranno mai. Il frutto del loro amore, della loro povertà, della schiavitù in cui sono vissuti e sono morti – il loro figlio cammina libero. E poiché non s'imbatte in loro in mezzo alla folla, si rende conto che è in errore, che questa non è l'eternità.»*No, non lo lessi tutto, il brano – a metà circa accadde un bacio dolce, lievemente insaporito da una birra al doppio malto che avevamo deciso di bere entrambi. Presto lei s'accorse che stava facendo qualcosa che non era il caso, no, e poi io non avevo la macchina, né una casa a disposizione per insistere, mi tenni il bacio e Brodskij e ritornammo ridenti nel casino della tenda.Non l'ho più rivista, né più ricordo il nome.
Questo patetico ricordo mi serve solo a rendere l'idea del perché Limonov è un libro che non mi piace, perché non mi racconta niente che io già non sappia pur non sapendolo, né tantomeno avendolo vissuto. Sono diventato presuntuoso. Ho quarantacinque anni, capitemi bene, l'età giusta per esserlo – e non esserlo, ovvero per sapere, per osare credere quali siano le cose che vadano ancora imparate e lette, cose tali che dispieghino il tempo che resta, lo stirino con il ferro a vapore della mente, per scriverci sopra, per metterci dentro tutto quanto questi organi che non hanno bevuto vodka saranno capaci di esprimere.
E ora basta. Vado a finire di leggere il libro.
*Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987 (traduzione di Gilberto Forti).