Lina Salvi: un vuoto di sentimenti

Da Narcyso

“Subito, ad apertura di libro, Lina Salvi ci pone davanti a una società chiusa, governata dal disordine e dal malessere dove è punito chi non s’adegua al peggio. La visione è del tutto triste e angosciante, come di chi, promettendosi un assoluto di bene, si trova a subire una quotidianità lacera e incapace. (…) Non pochi di questi componimenti, prossimi a piccole prose per densità di sostanza e per prossimità a cronache assai tristi, denunciano – a volte solo per pochi cenni – il vuoto di sentimenti che contraddistingue la massima parte di questa modernità.” (Elio Pecora nella presentazione)

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Tutto questo di cui dice Elio Pecora, porta Lina Salvi alla scelta di un abbassamento tonale, ma soprattutto di un’ ironia amara e spesso sottile, detta col tono spaesato del disinganno.
Queste persone di cui parla Lina Salvi, vengono viste in microcontesti, chiuse in recinti/steccati entro cui esse compiono i riti di una quotidianità malsana – malsana in quanto domata dalla norma o irredimibile -: il sindaco che nega il permesso per la festa dei senza dimora; il “Bolis” che ormai “si alza solo/ per mangiare”, a cui “il male” ha “portato via persino il nome”; la bambina lasciata soffocare in auto dalla madre; l’insegnante che “traballante”, “si siede dietro/ la cattedra in una classe di trenta ragazzini”…
Fra queste persone c’è anche la stessa poetessa che ricorda l’infanzia, che passeggia alla Feltrinelli, un po’ spaesata e ironica davanti alle foto dei grandi: Lessing, Emil, Plath…comprati, ormai, dentro sacchetti della spesa firmati, a segnalare un atteggiamento culturale radical chic, peggiore, forse, dell’indomita ignoranza di una bella fetta della popolazione italiana, comportamento che, quantomeno non sarà mai riservato a noi, poveri poeti di cui la maggior parte della massa non conosce nemmeno l’esistenza.
Certo, dice Lina Salvi, ” Farsi del bene è scrivere”, ma è anche “immaginare il marcio/che c’è dentro”, “la benigna indifferenza”. La scrittura, quindi, soprattutto quella poetica, è un coltello a doppio manico che, se da una parte immagina, crea e forse consola, dall’altra niente può contro il mondo le maschere che lo abitano. Mentre la poesia sceglie e pesa con scrupolo le parole, il mondo le spreca indossando abiti cerimoniali che una volta appartenevano ai poeti vati: “Insensata la quantità di parole/ che mettono in un progetto./Ad hoc. To be. In abiti/scuri, da pinguino”.
Nella descrizione di questo grigio mondo, si stagliano “grandiosi i disegni dei bambini/appiccicati alle finestre della scuola”, mentre dall’altra parte della strada si vede una finestra e un ufficio; dall’altra parte del colore di una scuola, ci siamo noi, ubbidienti al piano di una sconfitta destinale: “vendere, che merce non importa,/se farfalle, o zampe d’asino,/purchè risultino discretamente attive/le varie componenti del denaro”. Venduti noi stessi, in nome di un male che oscuramente ci abita.
Sebastiano Aglieco

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Vieni a lavorare con le stampelle
- mentre lo stomaco ti domanda aiuto -
fogli di calcolo e penne a sfere,
il mondo che sognavi da ragazzo,
un’ampia scelta di casistiche
da rispettare, solo scegliere
il quadrato in cui incasellare,
se l’avrai, quel nome.

p 39

Poi ci furono serate parigine
terrazze illuminate di champagne
con quei vestiti stampati a festa e i sorrisi
blu notte,

nulla di tutto questo la tua vita sarà,
sei in un quadro di Hopper
tre centimetri di trucco e due dame
bleu soir,

poi ci furono cantate canzoni,
nel giardino in abito regale
tutre le rose e i fiori.

p. 44

In persona del sindaco il comune
ha negato il permesso per la festa,
la notte dei senza dimora,
per motivi igienici della piazza.
Penso per loro doveva trattarsi
di una veglia, prima che il comandante
dei vigili urbani allontanasse
senza troppi riguardi un suonatore
di flauto fermo davanti al negozio
Coco Chanel, di abiti firmati.

p. 11

Il passeggero è seduto di fronte
in abito con prevalenza di grigio,
giacca spigata e toppe di pelle
al posto dei gomiti, indossa
un maglioncino grigio perla,
quella piccola barbetta
molte rughe malaticce sulla fronte
che formano delle piccole caselle.

p. 32

Sono cresciuta giocando
sui gradini di una chiesa,
mi piaceva l’aria di mistero intorno.

Spesso equivocando le parole di un prete.
L’andare in pace era l’andare a casa,
per mia comodità, verosimilmente.

In chiesa ho imparato a non rubare
le poche lire offerte dai fedeli al Cristo
che controllavo di nascosto
seduta sullo scanno.

p. 23


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