Magazine Cultura
di Steven Spielberg (USA, 2012)
con Daniel Day-Lewis, Sally Field, Tommy Lee Jones, James Spader, Joseph Gordon-Levitt, David Strathairn, Hal Holbrook
VOTO: **/5
Curiose coincidenze storico-cinefile: a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro escono nelle nostre sale due film americani che trattano, a modo loro, di una delle pagine più nere e misconosciute della storia a stelle e strisce. E se Django Unchained, che è ambientato nel 1858 (vale a dire tre anni prima della Guerra di Secessione) è fondamentalmente un pamphlet contro gli orrori della schiavitù e l'ottusità dei bianchi, Lincoln si preoccupa invece di raccontarci come essa fu (faticosamente) abolita per mano del più famoso Presidente che gli Stati Uniti ricordino, tanto da pagare con la vita la sua battaglia per l'uguaglianza. A dire il vero ci sarebbe anche un terzo film, The Conspirator, girato un paio d'anni fa da Robert Redford (molto bello, tra l'altro) e finito presto nel dimenticatoio, che si occupava invece di ciò che accadde dopo l'assassinio di Lincoln...
Ma restiamo in tema, e cioè a Lincoln: ovvero, il filmone dalle dodici candidature agli Oscar (favorito numero uno), che il democraticissimo Steven Spielberg aveva in mente da tempo e che sbarca adesso sui nostri schermi. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, Lincoln non è un biopic in senso stretto, nel senso che racconta solo gli ultimi quattro mesi di vita del personaggio impersonato da Daniel Day-Lewis (come ve lo diremo dopo), vale a dire dal momento della sua rielezione fino alla dura battaglia per l'approvazione del tredicesimo emendamento, cioè la legge che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù in tutto il paese.
Non era una questione di poco conto: all'epoca gli schiavi neri garantivano manodopera gratis e inusitato benessere per i loro padroni, spesso ricchissimi proprietari terrieri che vedevano come il fumo negli occhi la possibilità di essere privati del loro maggior privilegio. Fu per questo che undici stati 'dissidenti' del Sud si confederarono tra loro e combatterono una sanguinosa guerra civile contro il potere centrale di Washington. Lincoln parte proprio da qui, ovvero dalla corsa contro il tempo che il Presidente ingaggiò per far passare la legge prima della fine della guerra: se il Sud sconfitto, infatti, si fosse riunificato con l'Unione, il Congresso non avrebbe mai avuto i voti necessari per farla approvare. Ma anche senza la 'zavorra' sudista, il cammino della legge non fu affatto facile: la Costituzione americana prevedeva (e prevede tuttora) la maggioranza dei 2/3 dei parlamentari per le modifiche più salienti, e questo significava una sola cosa: che il partito del Presidente avrebbe per forza di cose dovuto convincere (con qualsiasi mezzo) una ventina di deputati dell'opposizione a votare il suo progetto.
Questo è il vero tema centrale di Lincoln: non tanto la battaglia contro la schiavitù quanto l'eterno machiavelliano conflitto tra etica e politica. Se sia cioè giusto, per un nobile fine, affidarsi a qualsiasi mezzo per ottenerlo, anche i meno orotodossi, se non palesemente illegali e scorretti. Lincoln è quindi la cronaca di una cinica compravendita di voti tra schieramenti contrapposti, in cambo di favori e reciproci compromessi. La morale è evidente: la politica è sporca a prescindere, anche quando si tratta di dover decidere su argomenti universali e apparentemente indiscutibili come la schiavitù. Con ovvi riferimenti al presente.
Ma se l'intento del regista è altrettanto nobile, in questo film la disparità tra intenzioni e risultato è stridente: Spielberg è un regista che ha dato il meglio di sè in passato, con film spettacolari, avventurosi e pieni di ritmo, capaci di toccare le corde degli spettatori schiudendo il lato fanciullesco che è in ognuno di noi. Poi però i soldi guadagnati, la fama, e anche (inutile negarlo) un calo di ispirazione, lo hanno portato a dirigere negli ultimi anni film melensi, vuoti, totalmente sbilanciati verso l'ovvietà e l'edulcorazione e in cui è difficile respingere, a seconda dei casi, la melassa o la noia.
Ecco, Lincoln appartiene decisamente alla seconda categoria: è una pellicola noiosa, sfiancante, senza ritmo, interminabile e troppo verbosa. Spielberg cerca volutamente di mantenere i toni bassi e rispettosi verso una tragedia doppia (quella di un uomo e di un popolo intero), ma lo fa appesantendo il film con troppa retorica e poche scene madri, e come al solito eccedendo in didascalismo: Spielberg deve sempre spiegarci tutto, anche ciò che è palese e non necessiterebbe di inutili lunghe digressioni verbali... finisce che così il film dura una buona mezz'ora più del dovuto, imbevuta dalle solite ridondanti musiche di John Williams e dalla leziosità della sceneggiatura che finisce per vanificare anche le prestazioni degli interpreti.
Succede così che un signor attore come Daniel Day-Lewis, generalmente superlativo, qui sparisce sotto chili di trucco e dialoghi pomposi e sempre sopra le righe. Magari vincerà pure l'Oscar (gli americani sono sempre generosi con i loro eroi) ma la sua recitazione enfatica e monocorde (usa sempre lo stesso tono, sia in pubblico sia in privato con moglie e figli) stavolta non sarà ricordata negli annali (anche se, dobbiamo dire, da noi il surreale doppiaggio di Pierfrancesco Favino certo non lo aiuta). Meglio, molto meglio, il vecchio Tommy Lee Jones, che porta il parrucchino in aula e la governante nera a letto, decisamente più a suo agio come politico fervente e incorruttibile...
Ma se davvero volete vedere un bel film sugli intrighi e i compromessi della politica, molto più snello e attuale di Lincoln, il mio consiglio è di rivedervi il bravo George Clooney e le sue Idi di Marzo, passato a Venezia un paio di stagioni fa: una pellicola nient'affatto pretenziosa e commercialmente perfetta, coi tempi giusti del film di genere. Qualità che Lincoln proprio non possiede.
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