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"Lincoln è un film strano". Questa frase non è mia, ma sono d'accordo in tutto e per tutto. Lincoln è un film strano, nel senso positivo del termine. Non sono un fan di Spielberg. Non sono un groupie di questo regista che durante il suo percorso (lontano dall'essere concluso) mi ha spiazzato, commosso, esaltato ma soprattutto fatto arrabbiare. Alcuni dei miei film preferiti (Lo Squalo, Duel, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Schindler's List) sono suoi, come sono suoi alcuni dei film che odio (E.T., A.I., Jurassic Park, The Terminal, Salvate il soldato Ryan). Ho amato alcuni dei suoi film meno riusciti, come La Guerra dei Mondi o Hook, e mi sono rifiutato di vedere War Horse solo perché non guarderò mai un film incentrato su un cavallo. Quindi nella decennale battaglia tra adoratori e detrattori di questo regista io sono un out-sider. Un super partes. Non mi interessa, non è affar mio. Ed è proprio da out-sider super partes che dichiaro la sua ultima fatica, Lincoln, un film immenso.Ho usato la parola "immenso", non "capolavoro". Forse è anche quello ma non mi azzardo dopo una singola visione a definirlo tale. Il fatto che non abbia vinto l'Oscar come miglior film me lo conferma. Ma la grandezza di un opera come questa - perché di opera si tratta, nel senso più ampio del termine - sta nel fatto che, secondo me, riscrive la storia. Non alla maniera di Bastardi Senza Gloria, perché quel che il regista racconta è basato su dati storici precisi e oggettivi, ma perché riesce quasi a far credere allo spettatore di non conoscerla, la storia. Come nell'ultima mezz'ora, quando assistiamo al voto della Camera per l'abrogazione del XIII emendamento e nell'attesa arriviamo a rimanere sulle spine: eppure chiunque abbia frequentato le scuole dell'obbligo sa benissimo che l'emendamento passò e mise fine alla schiavitù negli Stati Uniti d'America l'11 Gennaio del 1864. Il fatto è che ce ne dimentichiamo. Arriviamo persino a tenere il conto di chi vota sì e chi no. Perdiamo la cognizione della storia e ci scopriamo a seguirla proprio nello stesso istante in cui viene scritta. Questa è magia. Questo è cinema. E se c'è una cosa che si può dire senza ombra di dubbio su Steven Spielberg è che sa fare cinema. E quando se ne ricorda lo sa fare meglio di tanti altri.
Ma Lincoln è un film strano. Oserei dire teatrale. La maggior parte delle scene si svolge al chiuso, in spazi ristretti. Gli stacchi sono ridotti al minimo e la camera gira tra i personaggi avvolgendoli, spiandoli, si insinua tra loro durante dialoghi inteminabili e ce li mostra in tutta la loro fragilità. Se prendessimo ognuna di queste scene e le trasferissimo dal set cinematografico al palco teatrale, ci accorgeremmo che quasi tutte funzionano alla perfezione. Merito delle luci, merito della fotografia, merito di una compostezza e di un'architettura formale, forse persino rigida. Eppure Lincoln mantiene un appeal estremamente cinematografico e qui sta la grandezza della mano che dirige. Perché l'ampio respiro, addirittura epico, che modella la plasticità della messa in scena lo si può trovare solo al cinema. E' quasi tridimensionale, dona spessore, permette allo spettatore di superare la distanza imposta dal grande schermo. Questo succede grazie alla forza della rappresentazione (sembra quasi di respirare l'odore del legno e della carta o la polvere della strada e del campo di battaglia), succede per il modo misurato con cui vengono suscitati i sentimenti, qualunque essi siano. Ed è strano, perché non te lo aspetti, perché il biopic lascia spazio al film storico che lascia spazio a qualcosa che non sono ancora in grado di definire. Ed è bello non riuscire a definire qualcosa, una volta tanto.In tutto questo non si può non parlare della prova degli attori. Io vorrei soffermarmi su due prove in particolare: quella di Daniel Day-Lewis e quella di Tommy Lee Jones.Il primo da letterlamente vita al personaggio. Si annulla, per farlo. Si tratta di entropia: non si può aver qualcosa senza rinunciare a qualcos'altro. Così, per far tornare in vita il presidente americano, l'attore è costretto a scomparire. Un sacrificio necessario. Lincoln è Lincoln in tutto è per tutto. Day- Lewis gli assomiglia, cammina, parla, respira, sta fermo come lui. E' lui. Il trucco aiuto ma non basta: ci vuole la totale abnegazione. Il risultato, d'altra parte, è perfetto ed è valso l'Oscar come miglior attore. Il secondo invece sembra essere appena uscito da un romanzo di Dickens, rivelandosi personaggio assolutamente letterario. Il ruolo di Thaddeus Stevens era difficile, ma il vecchio attore concede una prova controllata e diventa uno dei personaggi più carismatici della pellicola, tra l'altro totalmente al servizio della storia. Attraverso Stevens si vive il dramma del razzismo e la difficoltà che si era incontrata nello sdradicare una barbarie dalla tradizione. Vederlo alla fine, pelato in un letto, felice, è quasi catartico.
Allora Lincoln è proprio quello che dovrebbe essere. Non importa come lo si definisce. Se qualcuno si è annoiato, guardandolo, o non si è trovato coinvolto, credo diventi assolutamente relativo. Giusto, ma relativo. Io, al contrario, sono rimasto colpito fino all'emozione. La retorica viene ridotta all'osso (probabilemnte tutta concentrata nel finalissimo), persino il momento più drammatico sulla carta (la morte del presidente) avviene fuori scena, lasciando tutti con quella strana sensazione di amarezza tra le labbra. E magari il salato delle lacrime. C'è poco da aggiungere. Forse è meglio rimanere in silenzio ad ascoltare:
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