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Alle spalle di un impegno così gravoso c'è tutta una serie di considerazioni su cui uno come me, senza la necessaria dottrina storica, è bene che non si avventuri su un blog o altrove. Quel che conta è che, senz'altro, esisteva un serio gap comunicativo, chiamiamolo così, tra l'alta borghesia terriera e industriale degli stati del nord e l'aristocrazia terriera - fondamentalmente latifondista - degli stati del sud. Mentre i democratici si rispecchiano in questa posizione, mentre il nuovo partito repubblicano trova nel capitalismo finanziario - e nel lavoro retribuito la forza più congeniale alla modernità che intendeva rappresentare. Le due diverse spinte esistevano già dall'origine degli Stati Uniti e già Washington e Jefferson se ne erano dovuti occupare nella difficilissima mediazione diplomatica alla base della stesura della prima celeberrima carta costituzionale. Ma nel corso dell'Ottocento l'industria ha preso il sopravvento e, con essa, le vecchie forze sociali ad essa legata hanno trovato una nuova linfa che Lincoln rappresentò come nessun altro prima di allora. Va da sé che, per quanto dietro all'abolizione della schiavitù ci fossero precisi interessi produttivi, al presidente Lincoln spetta il merito (a mio avviso) indiscutibile di aver posto termine a uno degli oltraggi più vergognosi nei confronti della vita umana.
Se lo dico e lo sottolineo qui è perché Abraham Lincoln, per quanto si affacci glorioso sul monte Rushmore, insieme a Washington, Jefferson e Rooselvet, raccoglie una pubblicistica non meno critica che adorante. Spielberg, che pure lascia sullo sfondo il braccio di ferro produttivo tra gli stati del nord e quelli del sud, non tace delle aperte voci di dissenso e non ha alcun problema a richiamare anche episodi poco lusinghieri di machiavellismo politico. Vale a dire che, a fronte di una giusta causa, il sedicesimo presidente degli Stati Uniti (qui interpretato dal sempre superbo Daniel Day-Lewis) non si sottrae a pratiche nient'affatto ortodosse per ottenere i consensi necessari per ottenere i voti democratici necessari a far passare il suo emendamento. Barcamenandosi tra le posizioni pacifiste del vecchio superconservatore Preston Blair (Hal Holbrook), la tempra altera di Thaddeus Stevens (l'ottimo, intensissimo Tommy Lee Jones) e le macchinazioni di una banda di corruttibilissimi democratici capeggiati dallo sbruffone Bilbo (l'inconfondibile e amato James Spader di Boston Legal), Lincoln non rinuncia ai suoi propositi: anche di fronte alla moglie Mary (una Sally Field stranamente fuori registro) che lo prega di dissuadere il figlio Robert (Joseph Gordon-Levitt) dall'andare in guerra, l'uomo non smette di essere determinato, ma non per questo sempre amabile e corretto.
Spielberg sembra assumersi in prima persona la responsabilità del machiavellismo del fine che giustifica i mezzi. La sua è una visione parziale, ma proprio per questo coraggiosa, e per di più ottima, di una storia in un film peraltro scritto magnificamente (da Tony Kushner su un libro di Doris Kearns Goodwin). I dialoghi sono sempre misurati e interessantissimi e rendono giustizia all'inesauribile aneddotica di Lincoln, al suo parlare figurato e dotto, sempre sulla falsariga di una pregressa e matura cultura classica (come accade nella poderosa e ineguagliabile monografia di Luraghi dedicata alla guerra civile americana). In più, le riprese e la fotografia, col peculiare gusto delle cose in molte sue inquadrature, restituiscono un ambiente suggestivo e pieno di classe, anche se forse qua e là lontano, artificiale, nell'eccesso un po' melodrammatico di certe scene. Ma pur con i suoi limiti, Lincoln rimane uno degli affreschi storici più impegnativi e meritevoli di questi ultimi anni al cinema e vale senz'altro i 150 minuti che gli spettatori incantati gli dedicano, in un silenzio non privo di un intimo tifo da stadio.
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