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Lincoln : Ecco come ho cambiato opinione sull’orrore della schiavitù

Creato il 03 febbraio 2013 da Wsf

“LINCOLN”: i 150 minuti che hanno fatto la storia!

Quella, per la precisione, di un semi-scempio cinematografico che può vantare pochi precedenti, ove si consideri lo scarto calcolato fra le aspettative e la resa (e non parlo di quella dei sudisti a fine pellicola). Ora, premesso che un film ‘storico-biografico’ che si presenti con tanto di cartina geo-storica e informative didascaliche in bella vista sullo schermo nero già mi insospettisce a prescindere, tutto ed ogni cosa, in questo film, costringe in odore di lavanda, in luogo di una polvere che avrebbe dovuto angustiare occhi e bocca. A cominciare dalle surreali scene iniziali, pretese ‘di guerra’ e rese ‘di plastica’. Colori e atmosfera da fortino di Natale, infilzamenti stile spiedino e un accenno di scazzottata hanno costituito un veicolo d’ingresso tutto sommato coerente al debutto in scena di un Daniel Day-Lewis sopportabile soltanto per i primi tre secondi. Fintanto, cioè, che Pier Francesco Favino (la cui recitazione, peraltro, amo appassionatamente) non ha iniziato a deturparne espressione e intonazioni. Doppiaggio da brivido, da denuncia, da condanna senza appello.

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Poi, fortunatamente, come spesso accade nelle migliori famiglie presidenziali, una moglie devota e votata al sacrificio arriva a salvare il marito, oscurandone la magra performance con una di gran lunga più additabile. Ed abbiamo, così, l’ingresso in scena della Field: treccia nera, lunga quanto basta a distogliere lo sguardo da eventuali, sospirate, credibilità sceniche, rughe e stanchezza eccessive, movenze basic, frasario piegato su sé stesso.

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Ecco: il frasario! Il frasario appaltato per questa pellicola è un connubio, di eccellenza paradigmatica, fra banalità e retorica, fra inutilità e ridondanza. Così come ridondante è tutto il non detto.
Quello stesso non detto che avrebbe dovuto, invece, contribuire a tratteggiare un privato umano del quale, in realtà, possiamo, probabilmente, soltanto vaneggiare e che, proprio per questo, avrebbe meritato un più cauto trattamento. Quello stesso non detto che ha contribuito, piuttosto, a rendere enfatico e scarsamente rappresentativo il personaggio di Lincoln, glissando, colpevolmente, su qualsivoglia possibilità di renderlo ‘persona’.
La Storia ha finito con l’invaghire ogni sembianza, ogni movenza, qualsiasi parola, laddove, invece, la Storia, così come è venuta poi, non avrebbe, a mio avviso, mai dovuto prendere la scena.
Oggi sappiamo, con portata reale, chi sia stato Lincoln, sappiamo cosa abbia fatto e cosa abbia significato; nei momenti contestuali narrati nel film, invece, Lincoln non era ancora tutto questo. Era amato, seguito, anche odiato, ma non era ancora e definitivamente la statua di marmo georgiano che troneggia all’esterno del Memoriale.
E il film ha peccato alla grande, in questo senso. Ha ceduto alle lusinghe del ‘poi’, servendosene per riempire la sceneggiatura e le atmosfere, per indirizzare i dialoghi, per gestire le movenze e gli sguardi. Ci siamo ritrovati in scena, così, un Lincoln che, in tutto il film, ha dovuto ‘subire’ due soli veri confronti, uno dei quali – quello con una Field scampanata in vesti e prostrazioni- non è riuscito nell’intento di commuovere più di quanto non possa fare una julienne di cipolle.

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In tutto il resto del film, invero, lo si è visto aggirarsi fra case e umana umanità, capace di convincere e ammaliare ‘con la sola imposizione delle vocali’.
Insomma, guardare e parlare in quel modo al malcapitato interlocutore va bene, ed è accettabile, se guidi una bat-mobile in piena Gotham City, non se guidi l’Unione in piena guerra di secessione.
Anche l’aspetto sul quale, probabilmente, l’idea sceneggiata puntava si è ritrovata fagocitata nell’esperienza cinematografica tipica di Spielberg: corruzione e accettazione lungimirante di talune delle sue implicazioni sono state trattate con tinte e sonorità decisamente fuorvianti, sottraendole a qualunque possibile valutazione di sorta.
C’è soltanto un momento, in un dibattito finale (ed è questo, il secondo dei due confronti di cui sopra), nel quale si riesce a condividere qualche emozione e si riesce a ‘sentire’ realmente la persona di Lincoln in tutta la sua appassionata difesa di un’idea che appariva attrice non protagonista, in un momento storico nel quale le troppe vite sottratte agli Stati apparivano come l’urgenza primaria e irrinunciabile; in quel momento, e solo in quel momento (e a patto di soprassedere sull’intonazione melliflua e pedante del doppiaggio), ti pare di comprendere, in toto, ciò che il film aveva malamente preteso di comunicare fin dalle prime battute, incartate e roboanti, retoriche e scarsamente credibili: in un contesto così orrendo, la Guerra sembra essere solo una battaglia mentre l’approvazione del sospirato emendamento appare essere la vera Guerra, definitiva e totalizzante, da vincere. E lì, per un momento, te ne accorgi, ne respiri la valenza, ne condividi l’emozione, ne accetti, inevitabilmente, le strategie.
Resta, dovuta, una citazione a Tommy Lee Jones (a fronte del silenzio che è meglio far cadere, invece, su tutti gli altri imparruccati di contorno) che, detestabile in quasi tutte le scene, si riscatta, anche se solo per amor di emozione, in un finale ‘all’americana’ ma accettabile, considerato il tipo di messaggio da veicolare.

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Insomma, un film che mi ha fatto decisamente arrabbiare, per le aspettative che vi avevo posto e per le carenze che ho riscontrato, e perché mi ha sottratta, di forza, al godimento per la sceneggiatura di un momento storico che mi affascina da sempre e per il quale avrei voluto piangere dal primo all’ultimo istante.
Invece, l’unico momento realmente coinvolgente di tutto l’allestimento è stato quello della votazione finale alla Camera… quando stai lì, in preda alla suspense, e ti chiedi: “Porca paletta, ma ce la faranno o no ad abolire ‘sta schiavitù”?

Articolo a cura di Spettinata per WSF


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