22 dicembre 2012 Lascia un commento
Soltanto i giovani hanno momenti simili. Non sto parlando dei giovanissimi. No. I giovanissimi, in effetti, non hanno momenti. È il privilegio della prima giovinezza di vivere in anticipo sui propri giorni, in quella bella continuità di una speranza che non conosce né pause né introspezione.
Ci si chiude alle spalle il piccolo cancello della fanciullezza e si entra in un giardino incantato, dove anche le ombre splendono di promesse e ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. Non perché sia una terra inesplorata. Si sa bene che tutta l’umanità è passata per quella stessa strada. È il fascino dell’esperienza universale da cui ci si aspetta una sensazione non comune o personale: un pezzetto di se stessi.
Riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, si va avanti, eccitati e divertiti, accogliendo insieme la buona e la cattiva sorte – le rose e le spine, come si suol dire – il variegato destino comune che ha in serbo tante possibilità per chi le merita o, forse, per chi ha fortuna. Già. Si va avanti. E il tempo, anche lui va avanti; finché dinnanzi si scorge una linea d’ombra che ci avvisa che anche la regione della prima giovinezza deve essere lasciata indietro.
Questo è il periodo della vita in cui è probabile che arrivino i momenti di cui ho parlato. Quali momenti? Momenti di noia, ecco, di stanchezza, di insoddisfazione. Momenti precipitosi. Parlo di quei momenti in cui chi è ancora giovane è portato a compiere atti avventati, come sposarsi all’improvviso, o abbandonare un lavoro senza motivo alcuno.
Questa non è la storia di un matrimonio. Non ero arrivato a tanto. Il mio atto, per quanto avventato, aveva più le caratteristiche del divorzio, della diserzione quasi. Senza una ragione plausibile per una persona di buon senso, mollai il mio lavoro – lasciai il mio posto – abbandonai la nave di cui la cosa peggiore che si potesse dire era che era una nave a vapore e perciò, forse, non meritava quella cieca fedeltà che… Comunque, non serve cercare di metter delle pezze a quello che io stesso anche allora sospettai essere poco più di un capriccio.
Accadde in un porto dell’Oriente. La nave era una nave dell’Oriente, nel senso che allora aveva quel porto di armamento. Trafficava fra isole oscure su un mare blu trapunto di scogli, con la bandiera rossa della Marina mercantile britannica sul coronamento a poppa e la bandiera armatoriale in testa d’albero, rossa anch’essa, ma con un bordo verde e una mezzaluna bianca. Il suo armatore era un arabo, e per di più un Syed. Ecco perché c’era un bordo verde sulla bandiera. Era a capo di un grande Casato di arabi degli Stretti, ma un suddito tanto fedele al composito Impero britannico come se ne potevano trovare a levante del Canale di Suez. Non si curava affatto della politica mondiale, ma godeva di un grande potere occulto presso la sua gente.
Per noi era indifferente chi fosse l’armatore. Aveva bisogno di ingaggiare dei bianchi per la parte marittima dei suoi affari, e molti di quelli che lui ingaggiava per questo lavoro non avevano mai posato gli occhi su di lui, dal primo all’ultimo giorno. Io stesso non lo vidi che una volta, per puro caso, su un molo: un vecchietto scuro, cieco da un occhio, con una veste nivea e delle pantofole gialle. Si lasciava baciare la mano da una folla reverente di pellegrini malesi, ai quali aveva fatto del bene, in termini di cibo e denaro. La sua elemosina, ho sentito dire, era molto estesa, copriva quasi l’intero Arcipelago. Ma non si dice che «l’uomo caritatevole è l’amico di Allah»?
Un armatore arabo eccellente (e pittoresco), sul quale non c’era bisogno di scervellarsi, una più che eccellente nave scozzese – perché tale era, dalla chiglia in su –, ottima per tenere il mare, facile da pulire, maneggevole in tutti i sensi, e, se non fosse stato per la sua propulsione interna, degna dell’amore di qualsiasi marinaio. Ancor oggi, per la sua memoria, conservo un profondo rispetto. Per quel che riguarda il genere di traffici nel quale era impegnata e il carattere dei miei compagni di bordo, non avrei potuto essere più soddisfatto nemmeno se vita e uomini fossero stati fatti su mia ordinazione da un mago benigno.
E all’improvviso abbandonai tutto. Me ne andai in quel modo, per noi irragionevole, in cui un uccello vola via da un comodo ramo. Fu come se, a mia insaputa, avessi udito un sussurro o visto qualcosa. Bah, forse! Il giorno prima mi andava tutto benissimo e il giorno dopo era sparito tutto: il fascino, il sapore, l’interesse, la soddisfazione, tutto. Era uno di quei momenti, capite. Mi aggredì la precoce malattia della tarda giovinezza e mi portò via. Via da quella nave, voglio dire.
Eravamo solo quattro bianchi a bordo, con un numeroso equipaggio di calasci e due sottufficiali malesi. Il Capitano mi guardò fisso come si domandasse cosa mi tormentava. Ma era un marinaio, e, anche lui, era stato giovane, un tempo. Poi sotto i folti baffi grigio-ferro venne a nascondersi un sorriso, e osservò che, naturalmente, se io sentivo di dovermene andare non mi poteva trattenere con la forza. E ci si accordò che sarei stato liquidato l’indomani mattina. Mentre uscivo dalla sala nautica, improvvisamente aggiunse, con un tono strano, pensieroso, che mi augurava di trovare quello che ero così ansioso di andare a cercare. Un’espressione pacata e criptica che sembrava penetrare più a fondo di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi arnese duro come il diamante. Credo che avesse proprio capito il mio caso.
Ma il secondo di macchina mi affrontò diversamente. Era un giovane scozzese vigoroso, con il viso liscio e gli occhi chiari. Dalla scaletta della sala macchine emerse prima la sua faccia rossa e onesta e poi tutto l’uomo robusto; le maniche della camicia rimboccate, si asciugava lentamente i massicci avambracci con una manciata di stracci. Gli occhi chiari esprimevano un amaro disgusto, come se la nostra amicizia si fosse mutata in cenere. Disse grevemente: «Ah! Certo! L’ho sempre pensato che avresti finito per scappare a casa e sposarti qualche stupida».
Nel porto era tacitamente risaputo che John Nieven era un terribile misogino, e l’assurdità della sua sortita mi convinse che aveva deliberatamente voluto essere sgradevole – molto sgradevole – che aveva voluto dire la cosa che riteneva più offensiva. La mia risata suonò come una scusa. Solo un amico poteva essere tanto arrabbiato e abbassai un po’ la cresta. Anche il direttore di macchina considerò la mia azione da un punto di vista tutto suo, ma con spirito più benevolo.
Era giovane anche lui, ma molto esile, con un’ombra di barba bruna lanuginosa intorno alla faccia smunta. Per tutto il giorno, in mare o in porto, lo si vedeva camminare in fretta su e giù per il ponte a poppa, con un’intensa espressione spiritualmente rapita, causata dalla continua percezione di sgradevoli sensazioni fisiche nella sua economia interna. Perché era un dispeptico cronico. Il mio caso per lui era molto semplice. Disse che non si trattava che di fegato in disordine. Ma senza dubbio! Mi consigliò di rimanere per un altro viaggio e nel frattempo prendere una certa specialità farmaceutica in cui lui credeva ciecamente. «Ti dirò io quello che farò. Comprerò due bottiglie, di tasca mia, per te. Ecco. Più di così non posso fare, ti pare?».
Credo che al più piccolo segno di un mio cedimento avrebbe perpetrato quell’atto crudele (o generoso). Ormai, però, io ero più insoddisfatto, disgustato e intestardito che mai. Quegli ultimi diciotto mesi, così pieni di esperienze nuove e variate, mi sembravano uno spreco desolato e prosaico di tempo. Sentivo – come posso esprimerlo? – che non potevo trarne alcuna verità.
Quale verità? Avrei fatto molta fatica a spiegarlo. Probabilmente, se mi avessero costretto, sarei semplicemente scoppiato a piangere. Ero abbastanza giovane per farlo.