TABULA RASA
- Fino a che punto è auspicabile, necessario o lecito criticare l'illuminismo -
di Robert Kurz
Inimicizia o eredità?
Come non ci si aspetterebbe altrimenti, l'approfondimento della critica radicale della filosofia borghese dell'illuminismo si confronta con un ampio spettro di resistenza in seno all'assistenza critica della società (quello che una volta era un movimento sociale, ora relegato da una nuova riflessione teorica al ruolo di assistenza), la quale, come conseguenza di un viaggio di trasformazione del pensiero preesistente alla critica sociale emancipatrice, frattanto divenuto obsoleto, sembrava essersi sviluppata, per così dire, sulla base di una riflessione teorica pura - in termini concreti, sulla negazione del pensiero illuminista, delle sue giustificazioni filosofiche e delle sue ideologie, in una nuova dimensione, critica del valore - e sembrava aver acquisito, al più tardi a partire dall'11 settembre, un'attualità immediata insperata in relazione al processo di crisi reale della società globale capitalistica. Questo avveniva precisamente nello stesso momento in cui questo nuovo livello di riflessione si apriva, in quanto necessità immanente di riflessione teorica, alla coscienza mondiale borghese officiale, ricordandosi - con una militanza di crisi che arrotava i denti - dei fondamenti dei suoi "valori occidentali" del XVIII secolo, al fine di legittimarsi nella guerra dei fantasmi contro i loro stessi propri demoni.
La critica radicale dell'ideologia illuminista, dotata di una nuova qualità, non può, perciò, essere percepita, nella situazione di una relativa calma sociale, come "pensiero interessante" nell'ambito del gioco delle biglie dell'esoterismo borghese; innanzitutto, si manifesta, in forma immediata, come una dichiarazione di guerra al livello più elevato di astrazione teorica. E diventa così, in modo altrettanto inaspettato, allo stesso tempo, un casus belli a quello stesso livello in seno alla sinistra residuale di ispirazione marxista; e lo è molto più di quanto lo sia già stata la critica del lavoro. Gli è che una parte di quel che rimane della sinistra radicale, perlomeno in Germania, ha scoperto, grazie all'impressione causata dalla scalata della barbarie in seno alla società globale di crisi, le sue radici e la sua patria intellettuale nella modernità occidentale, sentendosi ora in debito, con una maggior quota di fanatismo, di un omaggio solenne - che supera il catechismo democratico ufficiale - al cosiddetto illuminismo in quanto punto di partenza e di arrivo di tutto il pensiero emancipatore "lecito", denunciando qualsiasi intenzione di pizzicare le vacche sacre dell'Occidente come se fosse una complicità suppostamente reazionaria con la barbarie, "fascista", come il frutto di una nostalgia irrazionale della "idiozia della vita rurale", come la ricaduta negli "orrori della natura" precedenti alla modernità, ecc..
Questo squillo di tromba borghese di sinistra ed illuminista, che ancora una volta tenta di tirare tutti i fili del più che obsoleto pensiero ideologico della storia del movimento di modernizzazione capitalista, evidentemente ormai non può essere più preso completamente sul serio in termini intellettuali. Potremmo considerare allo stesso modo, sul piano della riflessione teorica sulla società, i commenti proferiti dal Papa in occasione della Pasqua sullo stato del mondo, o i documenti provenienti da Al-Quaeda. Ma la pressione ideologica è talmente forte e le radici del pensiero illuminista sono talmente profonde che, "nell'ora dell'afflizione", proprio in quei rappresentanti della sinistra che appaiono essere portatori di una riflessione a livello teorico, non sembra imporsi un acutizzazione della critica radicale ma, al contrario, la difesa della "eredità borghese" che ha approssimativamente lo stesso valore del patrimonio di villette a schiera fordiste insopportabilmente brutte, oramai decrepite fino al punto di non poter più essere riparate, ed il cui finanziamento non è mai stato completamente rimborsato.
Ma anche nei sobborghi della posizione che assume il punto di vista di dichiarare inevitabile la separazione dall'illuminismo, e la rinuncia alla sua eredità, si coltivano simultaneamente forti dubbi rispetto alla necessità di una rottura chiara ed inequivocabile. L'addio assume i tratti di un'esagerata cortesia, accompagnandosi ad una raffica di lusinghe talmente interminabili che, al contrario, potrebbero sorgere dubbi sul suo carattere di addio. La discrezione diplomatica può arrivare ad un punto in cui, ad aspettare, morremmo di fame sull'uscio, oppure ad un punto in cui continuiamo a limare la dichiarazione di guerra per così tanto tempo senza riuscire mai ad inviarla. In ogni caso, si sa che anche la critica dell'illuminismo dichiarata come necessaria, è accompagnata da molti più scrupoli che, per esempio, la critica del lavoro. Sembra che qui si tocchi un punto molto doloroso. Secondo l'analisi del testo -se fosse applicabile ai processi rivoluzionari in seno alla teoria critica - si parlerebbe senza dubbio di una "linea di resistenza".
Nelle discussioni avvenute finora - che non si riferiscono solo al "come" ma, in fondo, invariabilmente anche al "che cosa" della necessaria critica dell'illuminismo, ancor prima di arrivare al punto di definire i contenuti - sono emersi due temi di relativizzazione, o forse di anti-critica. Da un lato, si dice che la critica dell'illuminismo deve tenere sempre a mente che essa stessa proviene dal pensiero illuminista, e che fa parte dello stesso. Dall'altro lato, si afferma, come un'altra deduzione che proviene dalla stessa riparazione, che il pensiero illuminista è talmente ampio da contenere la sua propria critica. Questo, nonostante il suo conformarsi alla critica dell'illuminismo sulle questioni del dettaglio, suona già quasi come un addio all'addio, prima ancora che venga chiarita con maggior dettaglio la relazione oggettuale dell'addio.
Evidentemente, è difficile negarlo: la difficoltà di un approccio critico all'illuminismo consiste nel fatto che qualsiasi relazione, anche critica, con esso, dev'essere determinata o contaminata dall'illuminismo e dal suo modo di pensare e dal suo apparato concettuale. Dopo tutto le tematiche essenziali dell'illuminismo non sono solo alcune idee equiparate ad altre idee, né una scuola di pensiero equiparata ad altre scuole di pensiero, né determinati temi equiparati ad altrettanti temi, né, tanto meno, il paradigma di pertinenza di una disciplina scientifica particolare, o storica, equiparato ad altri, ma, semmai, il modus di tutte le idee, di tutte le scuole di pensiero, temi e paradigmi in generale nel mondo moderno a partire dal secolo XVIII. Una vera critica radicale dell'illuminismo, perciò, è possibile solo se non fa riferimento solamente a questo o a quel contenuto particolare del pensiero illuminista, ma se distrugge allo stesso tempo il modus, la forma, il metodo o l'approccio fondamentale di questo pensiero, portando allo scoperto la sua meccanica interna.
Un aspetto importante di questo pensiero è la categoria di "progresso" o - parlando in maniera più neutra e, per così dire, "metodica" - di "sviluppo"; quest'aspetto si trova maggiormente "sviluppato" nell'architettura del pensiero sistemico di Hegel. Questo modo di pensare si avvale dell'evidenza logica per cui tutte le cose e tutte le relazioni di questo mondo sono finite e avanzano in un processo inserito nel tempo. Tuttavia, a questa banale evidenza viene associata, come un passeggero clandestino, una precisa valutazione positiva, secondo cui per prima cosa gli stadi di sviluppo posteriori sono necessariamente "più elevati" e "migliori", nonostante che in linea di principio si potrebbe verificare precisamente il contrario; e, in secondo luogo, che la dinamica dello sviluppo è supportata da un principio ontologico positivo, ossia, che invariabilmente essa trasporta, o porta con sé, "qualcosa" che non può essere rifiutata.
Questa valorizzazione non è in alcun modo obbligatoria, ma è diventata parte integrante del concetto moderno di sviluppo. La connotazione positiva di questo concetto serve, tuttavia, un disegno ideologico, segnatamente quello dell'apologetica della socializzazione del valore e della rispettiva forma di soggetto, e dei suoi protagonisti filosofici, ossia, proprio quegli illuministi che, per così dire, in questo modo vogliono rendere impermeabile il posizionamento del loro oggetto sociale, come proprio, in seno alla storia. Si pretende di spingere qualsiasi critica dell'illuminismo dentro la favola della lepre che corre in gara con la tartaruga. Di conseguenza, il primo requisito di una critica realmente trascendente dell'illuminismo, e che ne possa rompere la prigione categoriale, consiste nel negare la logica illuminista dello sviluppo, ossia, nel mettere allo scoperto il trucco grossolano della tartaruga e nel non rendersi disponibile a giocare secondo le sue regole. Il suo essere modernità, ossia, il livello più recente delle formazioni sociali feticiste, non fa ancora sì che rappresenti necessariamente uno stato sociale "più elevato", né che contenga necessariamente un momento emancipatore degno di essere conservato.
Una volta che questo trabocchetto della configurazione iniziale è stato messo a nudo, l'inimicizia emancipatrice verso l'ideologia apologetica dell'illuminismo può essere formulata senza alcun vincolo, e anche con la dovuta durezza. In questo caso, le relativizzazioni aprioristiche sopra riferite assumono un aspetto peculiarmente paradossale. Ovviamente, una critica radicale dell'illuminismo può essere criticata in quello che sono i suoi contenuti, e deve avvenire in modo argomentativo, ma non deve cominciare col dover dimostrare la possibilità della propria esistenza. La questione aprioristica della possibilità della sua esistenza corrisponde al trucco da bifolco della tartaruga che non prende nemmeno in considerazione l'ipotesi di partecipare alla gara reale. Dal punto di vista stesso della critica, il paradosso consiste proprio nel trasformare sé stessa, a priori, in una stupida lepre che fa sue le condizioni dell'oggetto della sua critica, e minaccia in tal modo di smentire la sua qualità di critica.
Una critica che, prima di ogni cosa, si interroga se abbia il diritto di esistere, dà di sé un'immagine zoppicante. Da quando in qua si dà inizio all'inimicizia con l'affermazione di una fratellanza di sangue, e si comincia l'addio con la dichiarazione della rispettiva impossibilità a darselo, e la critica radicale con la constatazione che essa stessa è da sempre contenuta nel suo oggetto? Il pensiero illuminista come riflessione teorica dell'astrazione del valore ha solamente l'ampiezza sufficiente ad assorbire e ad "abbracciare" tutti gli oggetti, le necessità, le idee o le epoche, nella misura i cui gli stessi vengono assimilati alla logica del valore e, in questo modo, annichiliti nella loro stessa qualità. La critica di questo funzionamento della capacità di assorbimento universale solo apparente, però, non solo non è contenuta in questo pensiero ma è resa quasi impossibile perfino da essere pensata. In tale misura, l'idea di questa critica è, già nella sua prima forma embrionale astratta, l'inizio della fine del pensiero illuminista; tuttavia, lo è solo nella misura in cui non venga relativizzata a priori e revocata nel modo paradossale che abbiamo descritto.
Dopo tutto, se io so che l'oggetto della mia critica - oggetto che ho tutte le ragioni per superare - mi trattiene con ogni fibra, il mio impulso dovrebbe essere quello di scrollarmi di dosso le catene, e non quello di assicurarmi della forma confortevole di una simile prigione. L'alfa e l'omega della critica che merita il suo nome può essere solamente la negazione. Se, e in qualche misura, dell'oggetto della negazione può rimanere qualcosa che possa essere conservato - e che cosa potrebbe essere questo qualcosa - può essere constatato solo a posteriori, solo dopo il passaggio dal processo negatore. Gli argomenti topici dell'anti-critica e della relativizzazione, però, suggeriscono un modo di procedere diametralmente opposto: secondo essi, la serietà e la difendibilità argomentativa della critica dell'illuminismo dovrebbe essere comprovata dal fatto che, a priori, prima di qualsiasi confronto con l'oggetto in sé, si postuli che la critica può e deve esistere solo se essa conserva "qualcosa" dell'oggetto, o se da sempre si muove nell'ambito di questo oggetto.
A ben vedere, una simile posizione può essere assunta solamente se il punto di partenza non è dato dall'assolutezza della critica, bensì dall'assolutezza di quello che si vuole conservare, preceduto dall'affermazione, dalla "volontà di salvare" (quasi una "mania di salvare"); se non si procede in maniera offensivamente negatrice, ma difensivamente positivizzatrice e se la critica radicale dell'illuminismo viene vissuta, nella realtà, innanzitutto come spaventosa e quasi vessatoria, allora, in tal modo, la critica rischia di essere recuperata dalla concezione, affermativa a priori e leggittimatrice, del pensiero illuminista.
Di certo, quello che qui dev'essere negato per principio non è un oggetto esterno, come forse, nonostante tutti i processi di interiorizzazione, potrebbe ancora essere considerata la categoria del lavoro. Qui si tratta del modo di vedere e di trattare il mondo, del modo di pensare il proprio pensiero, si tratta di abolire la forma di mediazione della coscienza che in un certo qual modo (sebbene masochista) appare essere l'Io sociale stesso. Per tutto questo, la sfiducia del pensiero critico rispetto a sé stesso non ha più giustificazioni.
Ma cosa significa, in questo contesto, l'avvertimento pronunciato con il dito indice stranamente alzato: Tieni a mente, o critico, che tu stesso sei una creatura dell'illuminismo, che sei necessariamente carne della carne di quello contro cui ti rivolti? Se è così - ed evidentemente è anche così - la critica deve di fatto diffidare di sé stessa. Ma in che modo? Certo non nel senso di dover temere che forse è "andata troppo lontano", ancora prima di avere davvero cominciato!
L'ideologia illuminista non può essere uccisa alla stesso modo in cui si vorrebbe uccidere una vecchia zia maligna e prepotente, di cui tuttavia si desidera l'eredità. Fra tutte le considerazioni generali sul modus sociale, bisogna mettere per iscritto: Non c'è niente da ereditare, c'è solo da sbarazzarsi da qualcosa. E sbarazzarsene per bene.
- Robert Kurz -
2 – continua … -
fonte: EXIT!