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Lingerie femminista? No grazie!

Da Bambolediavole @BamboleDiavole

Sono una femminista convinta. Non mi vergogno di dirlo  e ne vado fiera. Ma vedere/leggere determinate cose davvero mi fa uscire dai gangheri.

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Ho scoperto che esiste una marca di biancheria intima, Neon Moon, che è stata etichettata femminista dalla sua creatrice. I motivi che hanno mosso Hayat Rachi sono dei più nobili, ha voluto creare un marchio che non va a sessualizzare le donne e che per la sua promozione utilizza modelle che non rispettano gli attuali canoni di bellezza imposti. La sua collezione nasce da una frustrazione personale rispetto alla sessualizzazione e oggettivazione della donna nell’industria della lingerie. Hayat ha disegnato la sua linea di intimo che assicura comfort e supporto. Banditi i reggiseni che schiacciano, spingono e imbottiscono dove, addirittura, i ferretti vengono visti come un’idea che rimanda alla donna come oggetto sessuale. La Rachi ci tiene a precisare che per la pubblicità sono utilizzate modelle con cicatrici, cellulite e peli sotto le ascelle, gambe e pube, per enfatizzare che nessuno è perfetto e che non esiste un’idea prestabilita di cosa sia una donna. Ecco l’ordinario che diventa straordinario!

Lingerie femminista? No grazie!

Modelle Neon Moon

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Modelle Neon Moon Lingerie femminista? No grazie!

Modella Neon Moon

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Modella Neon Moon Lingerie femminista? No grazie!

Modella Neon Moon

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Modella Neon Moon

Ho letto un’intervista alla stilista che vi propongo di seguito parzialmente per farvi capire quali sono le idee che muovono questa giovane 25enne:

Che cos’è la lingerie femminista?
Il femminismo è la volontà di avere parità dei sessi in ambito sociale, politico ed economico. Neon Moon è un marchio di lingerie femminista che non oggettivizza o sessualizza le ragazze per farle sentire oggetti in balia dello sguardo maschile – perché questa non sarebbe “parità”. Vorrei che le ragazze definissero da sole cos’è per loro il successo: c’è uno standard ben definito di cos’è la bellezza nella società, e nell’industria della lingerie in particolare, la Neon Moon invece è fatta anche per le persone di colore, LGBT, asessuali e pansessuali. È un brand body-positive che cerca di dare potere alle ragazze.

Perché ce n’era bisogno?
Io non potrei mai acquistare da un marchio che rende le ragazze oggetti sessuali e le fa sentire a disagio con il loro corpo. Perché dovrei mettere da parte quello in cui credo e promuovere la crescita di questi marchi? Ero frustrata e volevo un cambiamento, così ho creato il mio brand. Neon Moon è un’alternativa per chiunque cerchi un marchio che non pretende di farti sembrare ciò che non sei. 

Come hai scelto il design dei capi?
Ho pensato a tutte le tipologie di corpo possibili. Le linee naturali del corpo sono così belle, non vedo perché dovrebbero essere schiacciate o inferrettate. Le coppe morbide permettono al seno di cambiare forma, magari perché si prende peso o si perde, oppure perché si ingrossa durante il ciclo. Ho disegnato la lingerie che prende la forma del corpo, non il contrario.

Per chi volesse leggere integralmente l’intervista la trova qui.

Allora. Iniziamo dal perché non approvo completamente l’idea di Hayat Rachi:

  1. Non voglio indossare “etichette”
FantozziFantozzi

Sinceramente a me non va di indossare delle mutande femministe. Voglio essere libera di indossare delle mutande, qualunque esse siano. All’interno del mercato c’è davvero un’ampia scelta di biancheria intima. Si va dalla biancheria sportiva a quella più particolare in pizzo e merletto, a quella comoda, super comoda, extra comoda. Ma a nessuno è mai venuto in mente di piazzarci sopra “un’etichetta”. Hayat Rachi, a parte il “femminista”, non crea davvero nulla di nuovo.  Femminismo vuol dire principalmente libertà, libertà di essere, di comportarsi, di vestirsi e via dicendo. Trovo discriminante il fatto di pensare di essere meno femminista perché magari una mattina mi alzo e al posto del mutandone di Fantozzi afferro lo slip in pizzo nero.

Non voglio indossare un’etichetta. Il mio femminismo non sta scritto nel reggiseno che indosso.

Voglio poter indossare un reggiseno push-up quando ne ho voglia e non per questo essere definita  un oggetto sessuale, io lo indosso perché mi va. Voglio sentirmi libera di mettere una Guêpière per il semplice gusto di farlo. Non c’è nulla di male nel volersi sentire sensuali indossando determinati capi. Insomma, io sono femminista sia con il mutandone alla Fantozzi che con una brasiliana di pizzo nero.

2.  Indossare un push-up non è più sinonimo di femminilità sottomessa al potere maschile.

Protesta del 68Protesta del 68

Nel ’68 i movimenti femministi bruciavano i reggiseni nelle piazze poiché li riconducevano a simbolo di femminilità sottomessa al poter maschile. Venivano visti come degli strumenti di costrizione. Ma oggi le cose sono un po’ cambiate. La donna è consapevole della propria sessualità e il reggiseno è diventato un qualcosa di cui non si può fare quasi a meno e che non sempre rappresenta uno strumento per affascinare l’uomo. Personalmente, per una questione di praticità, comodità e benessere fisico, non riuscirei a pensare a una giornata senza il reggiseno o all’andare in palestra con un modello disegnato da Rachi. Soprattutto non sta scritto da nessuna parte che indossare un push-up voglia dire diventare in automatico un oggetto sessuale. Molte donne indossano determinati capi per puro gusto personale, perché gli piace il pizzo sulla propria pelle o si sentono meglio nel vedersi con delle forme più rotonde e sostenute. Piacere personale che non è per forza imposto da uno standard e che non nasce solo per soddisfare la libido maschile. 

Betty PageBetty Page

È anche vero che un completino intimo può essere usato per ammaliare e divertire il proprio compagno, ma se rappresenta una propria scelta  nell’intimità di una coppia, che male c’è?  La donna diventa un oggetto sessuale a causa del modo in cui il prodotto viene venduto non perché indossa un perizoma.

3. Crea e rafforza degli stereotipi

Il femminismo da sempre combatte- anche- contro gli stereotipi che vogliono le sue sostenitrici ( mi riferisco volutamente solo alle donne) in un determinato modo. Solitamente le femministe, nell’immaginario comune, sono viste come le zitelle acide, brutte, piene di peli, con i gatti, lesbiche, che vestono male e chi più ne ha più ne metta. Attaccare l’etichetta “femminista” sopra un marchio di lingerie e associargli un video promozionale che lancia determinati messaggi credo che non giovi alla causa.

Innanzitutto perché si associa la parola femminista solo a dei corpi che non rappresentano gli standard imposti, le modelle magre sono completamente escluse. Non è presente un’ eterogeneità variegata.  Nel video sono proposte donne con peli e forme generose e tutte queste donne, insieme alle loro caratteristiche, vengono definite femministe, le altre sono in automatico buttate fuori.

Quindi per una qualche strampalata legge di transitività, la donna femminista ha la pancetta e i peli. Il messaggio è sottile, subdolo. Ma c’è. Sembra che le donne debbano rispecchiare determinati canoni per poter essere definite femministe e rinunciare forzatamente al voler costruire come meglio credono la propria sensualità. Che ci terrei a ricordare, non è solo ad appannaggio maschile!

La Rachi ci sta sussurrando all’orecchio come dovrebbe essere una donna femminista e in questo modo va a rafforzare degli stereotipi. Purtroppo vedo in alcune delle sue idee, il voler utilizzare un estremismo superato e obsoleto.  Il fatto di non voler acquistare i prodotti di una casa di moda che utilizza il corpo delle donne come un oggetto sessuale è giustissimo e se tutt* seguissimo questo esempio probabilmente riusciremmo a combattere la miriade di pubblicità sessiste che infestano le nostre strade. Ma appiccicare il marchio femminista sopra dei capi d’abbigliamento e non proporre la “varietà”, secondo me, non è la strada giusta.

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A questo punto perché non proporre anche una campagna contro tutte le donne che indossano minigonne e tacco 12 o che si truccano?

Nonostante ciò molte idee usate dovrebbero essere prese come un esempio di comunicazione positiva. Se per un momento dimentichiamo l’utilizzo della parola femminista, ci  ritroviamo difronte ad un marchio che utilizza nel video promozionale delle donne con delle caratteristiche fisiche diverse rispetto a quelle alle quali siamo abituat* e che ormai  in tant* considerano come dei “difetti”. Inoltre le donne non sono sessualizzate e non rappresentano degli oggetti sessuali, riescono a promuovere un prodotto come la biancheria intima senza ammiccare, ed essendo abituati ad Irina la differenza è davvero sostanziale. C’è la modella che si stiracchia, una che è palesemente divertita. Tutte situazioni normali che di sexy non hanno ben nulla, e la cosa mi piace tantissimo!

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Se solo il video non avesse avuto sopra il marchio femminista, probabilmente ci trovavamo davanti a uno dei pochi casi di comunicazione rispettosa nei confronti del corpo delle donne e da proporre come esempio! Basta etichette! Siamo libere di essere chi vogliamo e soprattutto come vogliamo! 

Ah! E giusto per la cronaca, il reggiseno è un’invenzione nata dall’ingegno femminile.

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