di Salvatore Daniele. La versatilità è uno dei caratteri del genio greco. Nessuna idea si impose, nel suo ambito, con la forza dell’unicità. Nessuna via non fu tentata, che la teoria o l’esperienza suggerisse. E in ciascuna di essa la capacità inventiva dei greci si esplicò liberamente e fecondamente. Se vi fu una regola universalmente accettata, questa non fu che l’impegno ad una dialettica fra le parti, alla ricerca di un equilibrio che rendesse ogni cosa quanto più possibile scevra dall’eccesso.
La tragedia dunque non poteva stare senza la commedia. La rappresentazione del mondo e della vita era unilaterale se affidata alla sola tragedia, la sua verità poteva essere colta completandone il quadro con gli aspetti comici. La tragedia celebra l’epopea degli eroi, le loro gesta gloriose o scellerate, i loro conflitti esterni o interiori, sullo sfondo immenso del cosmo e con linguaggio del sublime. La commedia scruta indiscreta, talvolta pettegola e sfrontata, il vissuto quotidiano dell’uomo comune, la sua mediocre esistenza, stretta tra necessità e piccole e grandi aspirazioni, tra modeste virtù, il buon senso soprattutto, ed anche qualche vizio e bassezza. Lo sfondo è l’agglomerato urbano, il linguaggio è quello delle piazze e dei mercati. Per l’effetto comico, per la risata liberatoria, non disdegna nemmeno il turpiloquio.
La commedia ebbe una vita più lunga della tragedia e attraversò tre fasi. Quella più vicina alla nostra sensibilità è la sua terza fase, del IV secolo a.C. Ma allora essa aveva già perduto parte dei suoi caratteri distintivi, ‘normalizzandosi’ possiamo dire, al punto che sarebbe più corretto definirla dramma borghese. La commedia moderna, attraverso anche la mediazione latina, deriva in larga misura dalla commedia nuova di Menandro. A noi interessa la prima fase, del V secolo, la commedia politica, il cui massimo rappresentante fu Aristofane. Nella sua forma peculiare essa non è concepibile al di fuori del quadro dei diritti garantiti dalla democrazia ateniese. L’isegorìa, la libertà di parola per tutti, nella commedia antica assume la forma della parrhesìa, l’assoluta franchezza dell’autore nell’esprimere opinioni e critiche senza nessun riguardo per alcuno. E’ la iambikè idèa, la forma più spinta di satira politica mai esistita. E la democrazia ateniese, al suo apice, era forte al punto di finanziare essa stessa gli allestimenti scenici di chi attaccava pesantemente i suoi esponenti di primo piano e di abrogare presto una legge di censura che era stata varata nel 440. E se a prima vista i commediografi ateniesi del V secolo appaiono tout court su posizioni conservatrici ed antidemocratiche, a ben guardare le loro invettive in realtà sono rivolte un po’ a tutti, non risparmiando alcuno che a loro avviso ne fosse meritevole, ed Aristofane, feroce critico del populismo imperialista dei demagoghi, è di certo consapevole che la caduta di quel regime democratico avrebbe significato la fine di quella forma di commedia, la sua commedia. E così infatti avvenne al tramonto del ‘secolo d’oro’ di Atene e della sua democrazia.
La Lisistrata venne messa in scena da Aristofane nel 411. E’ appunto un momento critico per la democrazia ateniese. La dura sconfitta subita in Sicilia nel 413 ha provocato il sopravvento del partito oligarchico che ha sospeso la costituzione democratica e messo lo Stato sotto la tutela di una giunta di trenta probuli, ossia commissari: ad Aristofane non preme appoggiare il golpe oligarchico, ma che la guerra contro Sparta abbia fine con un equo compromesso e che Atene rinunci alla politica aggressiva propugnata dai democratici radicali. In questi anni una delle sacerdotesse di Atena, la dea protettrice della città, si chiamava Lisimaca, colei che scioglie le guerre. Sarà stato il nome di questa alta figura delle istituzioni religiose ateniesi a fornire al genio di Aristofane lo spunto per la creazione del personaggio di Lisistrata, la donna che scioglie gli eserciti? Non lo sappiamo. Tuttavia se il fine che Lisistrata si prefigge, la pace duratura fra gli stati greci per un fronte comune panellenico contro l’impero Persiano, ossia il programma del moderatismo patriottico greco, è in qualche modo un fine politicamente ‘sacro’, tale certamente non è il mezzo che escogita per costringere gli uomini ad attuarlo: il brillante espediente dell’astensione di tutte le donne della Grecia dal…sesso! La Lisistrata è famosa per questa trovata estrosa e disinvolta dello ‘sciopero sessuale’ e per il seguito di battute e situazioni spinte, talvolta oscene, cui essa da luogo. Ma questo è solo un aspetto della commedia, costituisce la sua vis comica. Se riflettiamo che come la tragedia anche la commedia è teatro ‘impegnato’, non saremo sorpresi di trovare nella Lisistrata, un messaggio serio condito con i sales comici. Cerchiamo di scoprire quale.
Lisistrata vuole che gli Ateniesi e gli Spartani facciano la pace cosicché gli uomini, invece di andare in guerra, restino in casa accanto alle loro donne (1275-6). A tal fine è disposta ad astenersi ora dal proprio piacere, posticipandolo in vista di un più compiuto godimento in futuro. Armata di questo spregiudicato calcolo razionale, ella sfida e nello stesso tempo seduce gli uomini: ti impongo questa momentanea rinuncia, che è anche la mia rinuncia, affinché pure tu, uomo, possa godere di più in seguito, perché il tuo e il mio piacere sono eguali. Il messaggio della Lisistrata, oltre l’invito alla pace e alla riconciliazione tra i Greci, è l’affermazione della parità fra l’uomo e la donna. Ad Atene dove il principio dell’ isonomia, estensione dei diritti, comincia a muovere i primi passi verso il concetto di uguaglianza, anche il tema della parità di genere diventa oggetto di attenzione. E curiosamente Aristofane e Platone, intellettuali ‘conservatori’, riguardo a tale questione stanno dalla parte del progresso.
Il desiderio (762-5) e il piacere sono dunque fatti assolutamente reciproci fra i due sessi, senza che l’uomo goda di alcun privilegio o tragga vantaggio da una prevaricazione. (162-6) E partendo dalla sfera intima (865-71 ; 892-3) il discorso si estende a tutti gli aspetti della vita. La tradizionale misoginia greca, lungi dal fregiarsi della barba dei filosofi, viene ricondotta a quello che è realmente: un repertorio di insulsi luoghi comuni e logori pregiudizi, che ostacolano l’instaurarsi di un naturale rapporto di cordialità tra uomini e donne. (1014-17) Ma qui non siamo nel mondo tragico delle passioni esasperate e terribili della Medea di Euripide. L’uguaglianza dei generi viene rivendicata come principio e affermata già come fatto sulla base di un’analisi della semplice realtà quotidiana. Basta dare un’occhiata al mercato di Atene per rendersi conto di quanto il lavoro femminile contribuisce all’economia della città: (456-7) se fosse loro permesso, le donne potrebbero anche combattere e comandare la flotta ateniese! (671-5) Per quale motivo alle donne non è consentito di occuparsi dell’amministrazione pubblica, quando sono esse che curano i bilanci familiari? (494-6) Anche se ora stanno costrette in casa, le donne sono capaci di ragionare sugli affari dello Stato sia per loro attitudine sia perché ascoltando con attenzione i discorsi dei padri e degli anziani, al pari degli uomini, si sono ben istruite e preparate. (1124-7) Le donne sono dunque perfettamente in grado di occuparsi di politica e di giudicare sbagliata una condotta: gli uomini la smettano allora sempre di zittirle e facendo essi silenzio si lascino consigliare! (506-28) Il coraggio e l’amor di patria non sono solo virtù maschili (542-7), in più le donne posseggono qualità loro proprie, come la grazia e la naturale gentilezza. E poi come si fa a dire: “la guerra è affare da uomini”? In realtà la guerra è più un affare da donne, perché esse ne sopportano il peso due volte: partoriscono i figli, li allevano con tanto amore e poi li vedono andare via a fare i soldati! (588-90 ; 884 ; 889-90)
Alla fine, questo è il punto centrale, le donne sono cittadine al pari degli uomini, anch’esse hanno il diritto e il dovere di essere utili allo Stato. (638-50) Ma davvero gli uomini avessero la saggezza, il buon senso delle donne e sapessero trattare i loro affari con la stessa abilità con cui le donne lavorano la lana! (567- 86)
La Lisistrata è un’opera che va oltre il suo tempo e ancora oggi non è ben compresa. Lo stesso Aristofane non proseguì lungo la sua linea e tornando sugli stessi temi nel 392 con le Ecclesiazuse, Le donne a parlamento, li trattò solo con intenti farseschi e parodostici, facendo della protagonista, Prassagora, una mera caricatura, diversamente da Lisistrata.
Featured image, La prima edizione dell’opera in lingua italiana (Venezia, 1545).
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