Bologna, MAMbo.
Il MAMbo è ambientazione perfetta per il Live Arts Week: permette un utilizzo sapiente dello spazio e dell’illuminazione, entrambe componenti fondamentali per questo festival, oggi arrivato alla sua terza edizione. Evolutosi dall’ormai deceduto Netmage, il Live Arts Week è una di quelle esperienze che a livello italiano non hanno eguali. Dedicato interamente alle arti performative, ogni anno si rinnova con delle soluzioni sempre più strabilianti dal punto di vista strutturale e con una line-up che esalta curatori di musei e musicomani incalliti. Giorno per giorno verrà raccontata la mia visione di questo festival, che è tra quelli da me ritenuti fra i migliori in assoluto.
Il MAMbo ospita più artisti ed eventi connessi al Live Arts Week che non sono prettamente performativi e giorno per giorno ne parlerò. Oggi mi concentro sull’introduzione di un artista che rimodellerà la sua installazione ogni sera: Canedicoda è l’alias di Giovanni Donadini, conosciuto in ambito musicale come Ottaven (ma anche per gruppi quali Bluid, With Love, WW, Magic Towers, Lago Morto, Nastro Mortal) e ancora di più in ambito stilistico per le originali stampe di magliette e il suo lavoro in generale. Canedicoda ha già avuto a che fare con Live Arts Week e Xing, tanto che l’installazione qui presentata è prodotta proprio dal festival e le strutture sulle quali accomodarsi sono state da lui realizzate per la scorsa edizione. “Processo Al Mochi / The Size Of A Green Pea” vede l’artista mettere a disposizione di tutti una selezione del suo archivio di testimonianze prese da YouTube che più lo hanno colpito negli ultimi anni.
È presente anche l’installazione ambientale di Daniel Löwenbrück, componente dello Schimpfluch-Gruppe di Rudolf Ebner alias Runzelstirn & Gurgelstøck. Anche se già con questi nomi bisognerebbe già avere in mente a cosa si va incontro, posticiperò la descrizione di “Waiting Room” a quando ne avrò avuto diretta esperienza. Per ora rivelo solamente che si tratta di una stanza nella quale trovarsi faccia a faccia con Löwenbrück senza un apparente motivo o scopo, ma ne riparleremo.
Lo stretto contatto che intreccia arte performativa e musica è rappresentato stasera da Barokthegreat e Aki Onda. I primi sono un collettivo creato nel 2008 dalla musicista Leila Gharib e dalla danzatrice-coreografa Sonia Brunelli, che studia i movimenti fisici-mentali del corpo in ambito musicale-ritualistico, all’interno di uno spazio architettonico nella sua concezione abitabile. Tradotto, la lunga performance prevede due musicisti agli angoli opposti della sala e più performer che opereranno nel resto dello spazio. Il ritualismo è subito accentuato dall’oscurità in cui verranno mossi i primi passi e dalle tuniche nere e occulte indossate da tutti i componenti. Raccontare una performance è utile in modo relativo, perché ognuno dei presenti la potrebbe interpretare in modo differente, e senza sbagliare. La struttura è suddivisa in varie fasi: dal buio iniziale mi aspettavo sbocciassero note più vicine ai Sunn O))) che agli Animal Collective, ma è proprio dai secondi che sembra esser preso lo spunto per un coloratissimo ricamo sonoro, che crea un fantastico gusto agrodolce quando viene accostato al nero visivo. Le tuniche iniziano a correre, danzare, quasi giocare come in una richiesta di riscatto dal loro stato di ombre perenni. Una figura geometrica appesa al soffitto crea un’ulteriore macchia nera sul già poco illuminato spazio di rappresentazione, dal quale le figure fanno fatica ad uscire, anzi cercano nuovi pannelli per creare ulteriore ombra sulla quale poter camminare con cautela. A un certo punto i performer cominciano a far roteare dei rombi che generano il tipico suono basso di questo strumento e che risplendono grazie alla luce ultravioletta. Pian piano scende il grande pannello appeso al soffitto, fino a rivelarsi come una montagna sacra, il tutto anticipato dalle chitarre che invece si fanno oscure e pesanti, questa volta ricordando proprio O’ Malley. Dopo questo rituale, due figure nuove vengono introdotte, una sempre al buio ma che associa ai suoi movimenti scattosi luci di colori diversi, e un’altra più pacata e lenta, che nel candore dei riflettori fa oscillare il suo corpo come se avesse appena preso vita.
Travolgente in modo diverso la prima delle tre performance – spalmate su tutto il festival – di Aki Onda, artista e musicista giapponese che vive a New York. Già famoso come fotografo, da più di vent’anni registra la sua vita su cassette audio, un po’ come faceva il protagonista del film di fantascienza “The Day After Tomorrow”. I suoi live solitamente vedono l’utilizzo delle tape come materia prima per ricreare un suono o un effetto, ma qui il concetto di concerto si espande verso quello performativo. Gli spazi utilizzati varieranno nei giorni, stasera il setting è costituito dalle scale che contornano l’opera “Cloudless” di Loris Cecchini. Già esposta fin da subito troviamo qualche cassetta testimone della vita del musicista: alcune di queste verranno utilizzate, suonate, remixate e storpiate. Sulla scalinata vengono appoggiati dei piatti di una batteria, una mirror ball e un amplificatore portatile. Aki Onda parte da una base quasi ambient e vaga per lo spazio con una torcia, evidenziando particolari e persone per richiamare la nostra attenzione. Le prime modifiche compiute grazie alla consolle ricordano la città sede della Hospital Productions e i suoi suoni, ma la grinta verrà smorzata dai vari utilizzi delle tape, che vengono riavvolte e cambiate in continuazione. Il via vai dell’artista per le scale è continuo: verso la metà del set due fari verranno posizionati in modo da illuminare i piatti e la mirror ball, la quale crea un effetto di luci avvolgente, che sembra voler imitare l’apnea dei paesaggi sottomarini, mentre Onda lancia per la discesa biglie di vetro che rimbalzano per il MAMbo. Non essendo questo uno spazio facile da utilizzare, l’effetto non raggiunge mai un apice di qualità audio-visiva, ma il complesso performativo rimane comunque di notevole ingegno.
L’ultimo episodio di stasera, e anche il più musicale in senso stretto, è quello di Èlg, pseudonimo del musicista francese Laurent Gérard. Grazie a un insieme di utilizzi diversi di voci ed elettronica (il che non stupisce, viste le collaborazioni con Ghédalia Tazartès, fra gli altri) ricrea un immaginario embrionico, aiutato dalla luce rossa molto soffusa. “Venti Storie Su Una Pagina Sola” è il nome del set presentato in prima mondiale qui al Live Arts Week e ci racconta un continuo evolversi di suoni fra sound poetry ed elettro-acustica. Nell’ora concessa assisteremo a tre evoluzioni: come detto, l’inizio sarà incentrato per la maggiore sulla parte vocale sposata all’elettronica, in una specie di electro-folk cantautoriale (poco saporito, però). La parte migliore subirà un’inclinazione più IDM e pesante, i volumi diventeranno quasi estremi e il fluido psichedelico verrà ben assorbito dalla mente. L’ultimo pezzo sarà “Addio Dio”, una ricerca dello spirito santo all’interno dell’universo, mentre ci si chiede se ci sia una religione a cui votarsi.
Ottimo questo primo giorno musicale del Live Arts Week, e secondo giorno effettivo, ma siamo solo all’inizio.
Grazie a Massimiliano Donati per le foto.
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