Da Livorno Magazinedel 22 ottobre 2012
di Patrizia Poli
hiedendoci se all’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto sia forse il sonno della morte men duro oppure no, c’inoltriamo nel Cimitero dei Lupi, o Cimitero Comunale La Cigna, oggi ai margini dell’area portuale ed industriale della città di Livorno, vicino al torrente la Cigna, appunto, in località Santo Stefano dei Lupi. La zona prende nome dalla gronda dei Lupi, una vasta area che in epoca medievale si estendeva da Pisa al villaggio labronico, cosiddetta dalla famiglia possidente. È stato proprio l’editto di San Cloud, del 1804, cui fa riferimento Foscolo nel Carme “I Sepolcri”, insieme ad una concomitante epidemia di febbre gialla, a decretare la nascita del nuovo cimitero.
È un pomeriggio di settembre, l’aria ferma e calda. Notiamo subito le baracchine dei fiori rinnovate, prima di superare l’ingresso. La Camera mortuaria è affollata, ahimè, sia di morti sia di vivi, ogni giorno c’è sempre qualcuno che se ne va e qualcuno costretto a piangere. La chiesetta di San Tobia (XIX sec) ci accoglie con i suoi muri spogli e un paio di quadri cupi ma gradevoli.
Progettato dall’architetto Riccardo Calocchieri, completato da Pampaloni e Diletti, ampliato infine da Unis, il camposanto fu benedetto nell’ottobre del 1822. Ulteriori trasformazioni si ebbero a partire dal 1910 fino ai giorni nostri. È costituito principalmente da tombe a sterro.
A parte la piccola folla raccolta davanti all’obitorio, il luogo è deserto. Riflettiamo su quanto il culto dei morti vada scemando nelle generazioni attuali e su come, venuti a mancare quei vecchi che facevano del cimitero una meta bisettimanale, in futuro quasi nessuno più attraverserà il viale monumentale che collega l’ingresso al porticato classicheggiante aggiunto da Unis. La navetta che dovrebbe trasportare anziani e disabili gira a vuoto fra i cipressi. Ci colpisce il silenzio, il senso di pace (eterna).
La prima parte del viale è la più antica e quella meglio tenuta, ricca di monumenti risalenti all’ottocento e al primo novecento. Spicca la tomba di Andrea Sgarallino (1935-1887) il quale ebbe a bandiera patria e lavoro. Patriota insieme al fratello Jacopo, iscritto alla Giovane Italia di Mazzini, si distinse nella difesa di Livorno dall’assedio austriaco nel 1949. Proprio da Santo Stefano ai Lupi, alle sei del mattino del 10 maggio, si udirono i primi cannoneggiamenti austriaci. L’11 maggio era già tutto finito. Solo alcuni decenni dopo, i resti dei livornesi fucilati furono trasferiti ai Lupi, dove Lorenzo Gori scolpì un monumento commemorativo.
Come i fratelli Sgarallino, incontriamo anche Oreste Franchini, che ebbe per maestro Mazzini e per duce Garibaldi e le cui ceneri ancora attendono l’avvento dell’ideale che fu tutta la sua vita.
C’imbattiamo in nomi noti, come Cesare Alemà, il cui monumento è sovrastato da berretto garibaldino, baionetta, spada, bandiera, tromba, foglie di alloro; Enrico Bartelloni; Francesco Chiusa; Giuseppe Ravenna e altri personaggi del risorgimento italiano ma anche della lotta antifascista, come Ilio Barontini e Vasco Jacoponi.
Ogni tomba monumentale ha la sua storia da raccontare, le sue lacrime e la sua memoria. Ci piace ricordarne una fra le tante, di sicuro meno conosciuta, quella costruita nel 1919 per Emma Zigoli.
Emma aveva diciotto anni e tutta la vita davanti, quella sera, mentre, agghindata a festa, allegra e spensierata, si recava a ballare nella sede del Partito Repubblicano, pregustando il divertimento, i chiacchiericci con le amiche, gli sguardi ammirati dei corteggiatori. Ma ci fu una sparatoria davanti al Partito e un proiettile la colpì, uccidendola. Il partito fece costruire il monumento in onore della vittima incolpevole fulminata la sera del 10 settembre 1919 per umana follia delittuosa e da allora custodisce le salme di tutti gli Zigoli, del fratello Toselli - che cadde eroe sul Montello respingendo l’eroico invasore, e che di certo portava il suo destino scritto nel nome, chiamandosi come l’eroico maggiore morto per difendere la postazione italiana sull’ altipiano dell’Amba Alagi - di Giuseppe, di Barbara - diventata cieca, si narra, dal gran piangere la morte dei figli - di Natale, di Esmeraldo - che tutti chiamavano solo Smeraldo e, chissà perché, la E del nome sulla lapide continua sempre a cadere.
Ci colpisce il Cristo effigiato da Giacomo Zilocchi per la famiglia Soriani, e il monumento alla imperitura e gloriosa memoria dei livornesi morti a Mentana, ma anche la tomba che aspetta la salma del giovanetto ventenne Alfredo Z. che colpito da contagioso malore giace in terra straniera ove vige una legge che vieta per dieci anni l’esumazione. Morto a Marsiglia nel 1882. Ci chiediamo se il giovanetto è poi mai tornato a casa.
Inoltrandoci lungo il viale, i monumenti si fanno più maestosi e insieme più moderni, riconosciamo i nomi di tante famiglie note a Livorno in campo commerciale e portuale, dai Fremura, ai Debatte, ai Tanzini ai La Comba. Alcune tombe presentano simboli laici e religiosi diversi, dalle menorah, i candelabri ebraici a sette braccia, a disegni massonici.
Il cimitero ospita anche i sacrari che raccolgono le spoglie dei partigiani, dei caduti della guerra 1915-1918, delle vittime civili e militari del secondo conflitto mondiale e dei militari italiani e inglesi morti nell’incidente aereo del 1971, quando, il 9 novembre, un aereo inglese della R.A.F cadde in mare al largo della Meloria col suo carico di giovani parà italiani.
Tanti nomi scorrono sotto i nostri occhi, soldati che hanno perso la vita combattendo, civili morti sotto i bombardamenti, come la ventitreenne Lora, ma anche lapidi in ricordo di morti ignoti a noi ma noti a Dio.
Il “Quadrato dei Francesi” costituisce l’area delle tombe dei soldati caduti durante la Grande Guerra, alcuni dei quali di origine musulmana. Le salme sono allineate, i cattolici hanno una croce mentre i musulmani un arco. Ma si vede che questi morti erano destinati a non riposare in pace, che l’orrore della guerra doveva inseguirli anche nell’al di là, se nel settembre del 1943 “una bomba di grosso calibro ha distrutto 34 su 54 delle tombe”, e i resti sono raccolti ora sotto un’unica lapide.
L’immagine di pace e gradevolezza, di camposanto ben conservato, scema man mano che ci avviciniamo al loggiato. Giungiamo all’intercolonio, sotto il porticato di Unis, che ospita notevoli opere marmoree apuane. Qui regnano abbandono e degrado, i piccioni hanno imbrattato con i loro escrementi il pavimento e le tombe; tutto è decadenza, disfacimento, vediamo segnali di lavori in corso che sembrano non progredire mai. Fuggiamo assaltati da sciami di zanzare provenienti dal vicino torrente. Preferiamo il mese di novembre, quando i cieli sono solcati da nugoli di stormi che disegnano ghirigori fra i cipressi.
A est sorge il nuovo complesso di loculi, molto ben tenuti, al contrario delle logge; verso sud troviamo Tempio Cinerario, un’imponente struttura monumentale realizzata nei primi anni del novecento per conto della Società di Cremazione. Chi ha visto cremare un proprio caro, sa cosa si prova quando la bara entra nel forno, scorrendo sul carrello, e quando poi, a operazione ultimata, l’addetto ti porge un pennello col quale raccoglierti da solo la cenere del tuo estinto.
Cartelli affissi sui colombari ci informano che gli ossari hanno durata di trenta anni mentre i loculi di cinquanta, dopodiché si procederà all’estumulazione d’ufficio e alla dispersione di resti e ceneri in ossari comuni, ma il pensiero sul momento non c’inquieta.
Altre aree del cimitero sono dedicate alle diverse comunità religiose e nazionali presenti a Livorno, come il “Quadrato degli Evangelisti”.
Il “Quadrato dei Valdesi” e il “Quadrato dei Turchi” sono due cimiteri preesistenti inglobati nel sepolcreto attuale, che copre 110.000 mq e ospita circa 190.000 salme. Nel riquadro turco ci colpiscono le scritte in arabo e la tomba di Memet Neyal turco nativo di Alessandra d’Egitto modello di pubbliche e private virtù cittadine disinteressato usò le sostanze a protezione degli amici. Ci rincresce scoprire che morì nel 1846.
Un arco del 1893 accoglie i nomi di tutti i livornesi che prestarono servizio nelle schiere di Garibaldi, alcuni dei quali sono sepolti sotto lapidi ornate dal berretto garibaldino. Se questi morti ci suscitano rispetto e interesse storico, fanno invece accapponare la pelle quelle di ragazzi mancati nel fiore degli anni, ricoperte di peluche, di vecchi giocattoli rovinati dalle intemperie, di biglietti ingialliti di fidanzatine, di gagliardetti amaranto.
Con questo triste pensiero ci avviamo all’uscita, ma prima ci soffermiamo di fronte alla lapide dedicata a Bruna Barbieri, detta la Ciucia, popolana forte, generosa, sempre pronta a donare, a prendere per subito dare, piena di passione, di slancio, antifascista ma benvoluta persino dai suoi nemici che ne riconoscevano la forza, l’innocenza selvaggia. La lapide è stata fortemente voluta dalla pronipote Tiziana e così recita
“In ricordo di Bruna Barbieri detta La Ciucia. Nata e vissuta nel rione della Venezia, anima pura, cuore generoso, esempio di rara generosità, dispersa tra le atrocità dell’ultima guerra”.