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LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, cuore e acciaio made in Italy

Creato il 25 febbraio 2016 da Masedomani @ma_se_domani

Photo: courtesy of Lucky Red

Cuore e acciaio, sentimento e azione, passione e tenacia, in due parole Jeeg Robot. La rivelazione del cinema italiano dell’ultimo anno, Lo Chiamavano Jeeg Robot, porta la firma di Gabriele Mainetti, regista e attore di talento che ha osato laddove altri non hanno avuto il coraggio di osare: ha riscoperto un mondo, spalancato la strada verso nuove frontiere e donato speranza ad un universo che sembra legato simbolicamente ai bilioni e al suo rinomato quartier generale di provenienza, Hollywood.
Forte di una stabilità e una struttura incomparabile, l’industria del nuovo continente, terra sconfinata di miti e leggende, continua a rimarcare la sua autorevole padronanza produttiva, macinando anno dopo anno blockbuster dai budget stratosferici pronti a sbancare inevitabilmente i botteghini.

Non sempre però gli acuti finanziari riescono a compensare carenze di idee o debacle creative, indice di una minor propensione da parte dei registi di mettersi in gioco e limitare l’utilizzo di effetti speciali a favore di trovate brillanti o intuizioni artigianali degne di nota. Un principio che nell’epoca d’oro del cinema di genere italiano, veniva adottato dai grandi cineasti italiani che si adoperavano con passione, professionalità e senso del mestiere per mascherare le limitate risorse finanziare attraverso determinazione, intraprendenza e pragmatismo innovativo.

Photo: courtesy of Lucky Red

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L’opera prima di Mainetti solca i confini di un filone inusuale per il cinema tricolore, il cinecomic o film di matrice supereroistica, e rilancia la figura del supereroe quale condottiero moderno dal carattere atipico che si avvale di poter straordinari per perseguire fini personali e diventa poi consapevole di essere un prescelto dal destino, un garante ‘super partes’ capace di ristabilire l’ordine e proteggere l’umanità dallo spettro noncurante del male. Ad incarnare il prototipo del paladino ‘per caso’, è uno strepitoso e mastodontico Claudio Santamaria che veste i panni di Enzo Ceccotti, un ladruncolo squinternato di Tor Bella Monaca la cui esistenza viene improvvisamente stravolta da una serie di eventi accidentali. Risorto dai fondali di una discarica colma di barili e rifiuti tossici sul Tevere, è incredulo davanti alla forza sovraumana che si trova a gestire e, inconsapevole degli effetti e delle conseguenze, cerca di capire come utilizzare al meglio i suoi nuovi poteri, percepiti come frutto di un dono piovuto dal cielo per volere della provvidenza. Il suo corpo è avvolto da una corazza di acciaio sottocutaneo dentro al quale batte un cuore e un animo gentile, protettivo e genuino che si manifesta in tutto il suo spontaneo imbarazzo quando incontra Alessia (Ilenia Pastorelli), una dolce e indifesa fanciulla che intravede nei suoi occhi lo sguardo dell’invulnerabile Hiroshi, celebre protagonista del manga giapponese Jeeg Robot d’Acciaio amato e idolatrato da intere generazioni. Complice la reciproca solitudine che li affligge, i due instaurano un legame puro e istintivo, avvolto da un innocenza di fondo che permea naturalmente durante l’intero arco narrativo.

Photo: courtesy of Lucky Red

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Ma come ogni superhero movie che si rispetti, non manca la presenza del villain a scardinare la quiete e la tranquillità dei protagonisti. Folle e dannato, a metà tra un rozzo boss di borgata e un fenomeno da baraccone uscito da un reality show, è lo Zingaro di Luca Marinelli a incanalare le sorti di una pellicola che non ha paura di mostrare la sua vera essenza, ossia la comune empatia e l’immedesimazione con lo spettatore, costruita senza filtri e particolari imposizioni estetiche. Ricalcando le orme dell’anticonformista Deadpool, Lo Chiamavano Jeeg Robot è un mix spasmodico di dinamismo, violenza e accusa sociale che rifiuta ogni tipo di catalogazione e omologazione con i fratelli maggiori di Marvel e DC Comics, per dimostrare con orgoglio le radici di appartenenza di un paese come l’Italia che, nel trentennio ’60-’80, ha fatto scuola nel mondo e ha lasciato una solida base su cui appoggiarsi per ripartire. La finzione lascia il posto alla realtà e i personaggi emergono per il loro carattere semplice, onesto e sincero, all’interno di una rappresentazione pop punk in cui vengono mescolate sapientemente atmosfere noir e componenti fantasy ma anche lampi di stand up comedy atti ad esorcizzare in modo grottesco le numerose sequenze action e a rendere il pubblico partecipe attivo di ciò che sta accadendo.

Photo: courtesy of Lucky Red

Photo: courtesy of Lucky Red

L’operazione di resurrezione delle cinema di genere italiano promossa da Stefano Sollima con Suburra, le cui ambientazioni cupe e gli scenari oscuri vengono ripresi nel film, prosegue con orgoglio grazie a Mainetti che rende concreta un’idea di messa in scena legata alla tradizione del passato e rivolta con intelligenza alla contemporaneità, prendendo le distanze dalle pellicole affini dal punto di vista tematico e esibendo una propria cifra stilistica.

Con un ritmo incalzante e avvincente e una storia anticonvenzionale, Lo Chiamavano Jeeg Robot simboleggia una sorta di scommessa collettiva del nostro cinema e si propone come valida alternativa alle commedie dozzinali che anno dopo anno invadono le sale, saturando irrimediabilmente il mercato nazionale. Il desiderio di spingersi oltre verso nuovi immaginari è evidente, e il film di Gabriele Mainetti ne è la perfetta testimonianza. Sorprendente.

Andrea Rurali

 


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