“Sai Dimitri, quando si cerca un eroe, bisogna partire dalla cosa di cui ogni eroe ha bisogno: un cattivo. Per questo, cercando il nostro eroe Bellerofonte, abbiamo creato un mostro: Chimera.” – Mission: Impossible 2
La citazione tratta dal film di John Woo è la perfetta antitesi di quanto accade al super eroe italiano scritto e diretto da Gabriele Mainetti. Ne “Lo chiamavano Jeeg Robot” assistiamo alla genesi dell’eroe (il cattivo diventa necessità subordinata), dove una persona non ordinaria (il protagonista è poco più di un borseggiatore), si ritrova ad acquisire dei poteri straordinari. Ma vivere in un mondo che è tutto tranne che l’emblema del bello, del patriottismo e del sacrificio (quindi l’esatto opposto di quello abituale delle produzioni Marvel), diviene normale che il protagonista della vicenda, Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) dopo aver acquisito i poteri li usi a fini puramente personali.
L’eroe italiano non è palestrato e non ha nemmeno sopracciglia curateConscio delle sue facoltà fuori dal normale, inizierà a rapinare banche e furgoni portavalori, queste azioni metteranno lo porteranno ad incrociare la sua vita con “lo zingaro” (Luca Marinelli), un criminale da strapazzo che vuole anche lui poteri sovrumani solo ed esclusivamente per imporsi su tutta la criminalità locale (al cattivo interessa l’acquisizione del potere e questa non passa necessariamente attraverso la sconfitta dell’eroe, altra rottura con la visione americana, poiché il suo fine è l’aumento del potere stesso). Il giovane regista Gabriele Mainetti nazionalizza il cinema di supereroi realizzando una pellicola che sembra una inedita gravidanza a tre, ove a mescolarsi sono i le impronte genetiche di James Gunn (quello di “Super” non de “I Guardiani della galassia”), Sergio Martino e Stefano Sollima. In linea teorica questa mescolanza bizzarra è molto meno esaltante della qualità finale della pellicola capace di superare le aspettative, ma forse sarebbe meglio dire le perplessità, che una produzione italica di questo tipo innegabilmente crea (soprattutto dopo esperimenti quali “Il ragazzo invisibile”).
Non poteva non chiamarsi “Zingaro”L’immaginario a cui attingere però non è più una tavola da fumetto, ma le produzioni di genere italiane degli ultimi trent’anni e su quel mondo fatto di personaggi sempre in bilico tra luce ed ombra, Mainetti inserisce il suo protagonista (eroe suo malgrado), una figura che non vede la responsabilità legata ai suoi poteri (del tutto assente il romanticismo figurativo dello “Spider-Man” di Raimi), ma solamente l’appagamento degli interessi personali, incarnando definitivamente la vittoria del consumismo/benessere. Diventa quindi scelta perfetta la figura anarchica de “lo zingaro”, grottescamente in bilico tra la goliardia dell’Italia di ieri (la sequenza del karaoke è mito prima ancora di consumarsi sullo schermo) e la smania di potere e imposizione sugli altri di quella odierna. Anche l’amore trova spazio in “Lo chiamavano Jeeg Robot”, anzi è doveroso sottolineare come sia proprio questo a muovere la giostra di Mainetti, quasi a ricordare che nonostante tutto senza sentimenti non potremmo divenire qualcosa di diverso (televisori, proiettori e oggetti vari non ci rendono migliori). In una pellicola che sicuramente ha dei difetti (la seconda parte tende a cedere nel ritmo e lentamente perde di mordente), ma che conferma l’esistenza di registi in grado di realizzare un prodotto commerciale senza ricorrere necessariamente a viaggi natalizi e battute a base di culi e scoregge.